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E COSÌ TUTTO TORNA


E COSÌ TUTTO TORNA

Le contestazioni di queste settimane, in nome della pace, dello stop alla guerra, della fine del genocidio, non possono essere rubricate alla sola voce antisemitismo.

Non solo o non tanto perché nessuno grida ancora al complotto giudo-demo-pluto-eccetera, ma perché striscioni e manifestazioni hanno dentro più cose, e non se ne capisce a fondo la natura se la si riconduce solamente all’avversione nei confronti degli ebrei e dell’«entità sionista».

Che c’è, purtroppo, e si fa sentire, ma collegata a una certa interpretazione della storia e dell’Occidente, che è il primo bersaglio delle proteste in corso.

Che cosa ci fa Israele in Medio Oriente?

Cosa c’entra con i paesi arabi e musulmani uno Stato voluto dagli europei e dagli americani per risarcire gli ebrei del crimine della Shoah?

Come si può tollerare, in un mondo decolonizzato, questo resto di una logica coloniale imposta dall’Occidente al resto del mondo?

Come si può giustificare un avamposto degli Stati Uniti in quell’area, se non in nome del petrolio e di inconfessabili interessi economici?

Gratta gratta, sotto la geopolitica c’è l’economia, ed economia significa capitalismo, e capitalismo significa egemonia americana e strapotere finanziario, politico, militare.

La storia che raccontano quelli che stanno con la Palestina libera dal fiume al mare (cioè: senza Israele di mezzo) è fatta così, molto all’ingrosso ma ben inscritta in umori e passioni radicate e in un patchwork ideologico che non sarà una ricognizione storiografica meno semplicistica, o meno dozzinale, a mandare in pezzi.

Israele è la potenza occupante: questo è il punto, dicono.

Dopodiché, come accade purtroppo a tutti i capri espiatori, Israele diventa disinvoltamente pars pro toto, e il tutto che rappresenta, violente o nolente, è l’Occidente con i suoi torti.

Questa chiave di lettura si vede benissimo nel differente trattamento che viene riservato alla guerra in Ucraina.

Cosa c’è di occidentale, lì: la Nato?

Ed è dunque alla Nato e ai paesi Nato che si addossano le vere responsabilità (ha provocato la Russia accerchiandola, e ora non smette di alimentare il conflitto sulla pelle degli ucraini), ma anche al più cieco odiatore dell’Occidente che sposa senza difficoltà questa versione dei fatti, per la gioia di Peskov e della propaganda putiniana, riuscirà difficile esprimere solidarietà al popolo russo per le bombe che piovono pur sempre sul suolo ucraino.

Nel conflitto medio-orientale non c’è da avere di questi imbarazzi: la guerra è a Gaza e le vittime sono i civili palestinesi. E quella che Israele chiama la sua sicurezza è solo il suo sopruso. Non è pensato, in genere, come un sopruso, esistenziale, ontologico, razziale, ma è descritto come la prepotenza di un paese militarmente più forte, appoggiato, sostenuto, foraggiato dall’Occidente capitalistico.

 E così tutto torna.

SERVE UN DISEGNINO?


SERVE UN DISEGNINO?

Ora c’è un orco aggressore, Putin.

Comanda da molto tempo una grande potenza nucleare cui la guerra fredda non basta più, è pronta ad espandersi, determinata, e lo fa senza ritegno, da anni, sfruttando la sonnacchiosa ignavia dei Paesi occidentali.

E forse proprio per questa ignavia l’orco si è fatto sempre più baldanzoso e ora procede a colpi di “operazioni militari speciali”, ovvero aggressioni ed invasioni di Paesi confinanti.

Da oltre due anni il mondo è costretto a sopportare un’azione aggressiva di espansione militare che non può essere camuffata da altro e di giorno in giorno si fanno sempre più nette le affinità con quello che avvenne in Europa nel 1938, quando Hitler, “il grande dittatore”, pretese di appropriarsi dei famosi Sudeti, ovvero un pezzo della Cecoslovacchia, né più né meno come fossero la Crimea o il Donbass oggi.

Le potenze occidentali nicchiarono, si ritrassero, nessuno voleva prendere di petto il minaccioso tiranno tedesco.

Non ravvisate le mostruose analogie?

Certo, tutti speriamo in un epilogo diverso, ma dimenticare questo passato recente è da pazzi incoscienti.

E allora, occorre che Europa si svegli seriamente e cerchi di prendere l’iniziativa, ben sapendo che senza fare nulla la conclusione è facilmente prevedibile.

Certo, fa impressione dover parlare di guerra 80 anni dopo. 

 E’ davvero un brutto discorso.

Fortunatamente, per ora è solo un discorso ma, se non vogliamo che la situazione precipiti, cerchiamo di convincerci che, se Putin vince e occupa l’Ucraina, non è solo l’Ucraina ad essere sconfitta, ma tutta l’Europa ed il mondo occidentale.

Come allora, sugli Stati Uniti non è detto che si possa contare, dovesse vincere l’altro orco Trump. Allora entrarono in guerra solo nel 1942, dopo Pearl Harbor: l’Inghilterra sostenne praticamente da sola il peso della resistenza per quasi due anni, mentre Hitler dilagava.

Oggi non sarà più come allora, ma sarà meglio tenere ben a mente che la democrazia, bene prezioso, certamente non si esporta; la democrazia si conquista, e dopo bisogna difenderla, ché democrazia e pace non sono affatto garantite per sempre.

La Storia può precipitare nel baratro in men che non si dica. Cerchiamo almeno di non dimenticare.

E’ tutto chiaro o serve un disegnino?

 

GUERRE SENZA LEGGE


GUERRE SENZA LEGGE

Mentre ai confini dell’Europa infuriano due guerre, in Ucraina e in Israele-Palestina, che mietono e ancora mieteranno molte vittime militari e soprattutto civili, riflettiamo sulla guerra in sé, su questo strumento di risoluzione (o tentativo di risoluzione) dei conflitti tra i popoli con mezzi diversi dalla politica, così come la definì asciuttamente oltre due secoli fa un militare e teorico della guerra, Carl von Clausewitz. La guerra ‒ la violenza organizzata da parte di uno Stato in cui gli esseri umani vengono uccisi e le cose distrutte ‒ è orribile. È difficile immaginare, se non lo si è provato, l’orrore dei soldati sul campo di battaglia, in difesa o all’attacco, nelle trincee sotto il martellamento dell’artiglieria nemica; o lo sgomento, il terrore, dei non combattenti sottoposti a bombardamenti e perfino ad uccisioni gratuite di fronte ad una violenza senza rimedio e senza soccorso che contraddice ogni elementare senso di ciò che costituisce vivere civile.

Per questo motivo nel 1945, dopo la guerra più orribile e letale di tutti i tempi ‒ la Seconda guerra mondiale ‒ le Nazioni Unite nella loro Carta proclamarono il divieto della guerra tra Stati con l’unica eccezione dell’autodifesa. Diciassette anni prima, nel 1928, aveva provato a vietarla il Patto Briand-Kellogg, con gli effetti nulli che si sono visti. Ma questa volta sarebbe stato diverso, così fu detto e si sperava, perché adesso erano tutte le potenze grandi e piccole del mondo che non volevano si ripetessero gli orrori e gli stermini della Seconda guerra mondiale.

Ma le cose non andarono così. I conflitti tra gli Stati per motivi di interesse o ideologici sono continuati. E soprattutto sono aumentati oltre misura altri conflitti, altre guerre di diverso tipo: guerre di indipendenza contro il dominio coloniale, guerre civili tra gruppi etnici o religiosi o fazioni politiche, guerre di terrorismo e guerre contro il terrorismo in cui miliziani, civili senza uniforme e senza Stato combattono contro lo Stato e lo Stato contro di essi e contro la popolazione inerme. Nelle guerre di indipendenza degli anni Sessanta furono le potenze coloniali europee ‒ Regno Unito, Francia, Olanda, Portogallo ‒ a compiere i peggiori massacri. Poi vennero le guerre tra i nuovi Stati nati dalla decolonizzazione per la definizione di confini o per i conflitti etnici sorti (in parte) come conseguenza del dominio coloniale, in una sequenza apparentemente infinita di scontri armati che ha visto e vede protagonisti decine di Stati: Cina, India, Pakistan, Bangladesh, Indonesia, Malaysia, Unione Sovietica, Vietnam, Cambogia, Etiopia, Somalia, Libia, Egitto, Ciad, Marocco, Algeria, Eritrea ‒ per citarne solo alcuni dal 1947 ad oggi. Negli anni della guerra fredda molte di queste guerre sono state anche guerre “per procura” in cui una superpotenza (gli Stati Uniti e i loro alleati) si schierava a fianco di una parte armandola e sostenendola finanziariamente contro l’altra parte sostenuta dall’altra superpotenza (l’Unione Sovietica).

Altri conflitti dopo il 1991 sono stati più o meno diretta conseguenza della dissoluzione dell’Unione Sovietica con la Russia che tentava (e tenta tuttora) di mantenere il proprio controllo sulle repubbliche che ne avevano fatto parte: le sanguinose guerre di Cecenia, l’invasione della Georgia (2008), le guerre tra Armenia e Azerbaigian, l’occupazione di parte del Donbass e della Crimea (2014) fino all’attuale guerra di Ucraina iniziata nel febbraio del 2022.

Ma anche da parte dei Paesi occidentali (Stati Uniti e i loro alleati europei) non sono mancati i conflitti, alcuni durati decenni, altri pochi mesi: guerre di invasione e guerre per proteggere un alleato dall’invasione, guerre di aggressione e guerre di “difesa preventiva”, guerre per il petrolio e guerre contro il terrorismo: in Corea per difenderla dall’aggressione del Nord, in Vietnam per difenderlo dal comunismo, a Suez per la libertà dei commerci, a Cuba per cacciare Fidel Castro, nelle Falkland per il loro controllo, a Grenada e Panama per motivi che nessuno più ricorda, in Kuwait per la sua liberazione, nei Balcani per fermare i massacri, in Afghanistan per catturare Bin Laden, in Iraq per abbattere Saddam Hussein, in Libia per liberarla da Gheddafi, in Siria contro i terroristi dell’ISIS.

Da quando è stato approvato nel 1945, il divieto di fare la guerra se non per autodifesa è stato violato da tutti i principali Paesi del mondo. Si stima che negli ultimi 75 anni di “lunga pace” i conflitti armati ‒ guerre coloniali, guerre interstatali, guerre civili, guerre “con un solo attore” (lo Stato contro parte della popolazione) ‒ siano stati circa 300 e abbiano provocato almeno 20 milioni di morti, senza contare le decine di milioni di profughi interni ed esterni. Di tutte queste guerre soltanto due sono state autorizzate dalle Nazioni Unite: la guerra di Corea in risposta all’aggressione della Corea del Nord e la guerra dell’Afghanistan in risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre.

La Carta delle Nazioni Unite aveva cercato di impedire la guerra tra gli Stati modificando il cosiddetto ius ad bellum che fino ad allora aveva considerata lecita qualunque guerra, anche di aggressione, purché fosse decisa da un potere statale legittimo. Pochi anni dopo, nel 1949, due convenzioni firmate a Ginevra intervenivano sull’altra parte del diritto bellico, lo ius in bello stabilendo quali comportamenti erano leciti in un conflitto armato (l’uccisione dei soldati nemici e la distruzione delle infrastrutture militari) e quali invece dovevano essere vietati: l’uccisione dei prigionieri, l’uccisione indiscriminata dei civili, la tortura, la presa di ostaggi, le rappresaglie, le deportazioni, l’annessione di territori ‒ tutte pratiche ampiamente seguite in tutte le guerre precedenti. Nel 1977 le protezioni nei confronti dei soldati vennero estese ai combattenti irregolari, ai civili in armi senza uniforme, che almeno dalle guerre napoleoniche in poi combattono contro una potenza occupante (partigiani) o contro il proprio Stato (ribelli), e che sono sempre stati trattati alla stregua di banditi senza alcuna protezione giuridica.

E tuttavia, nonostante le nuove norme adottate per mitigare la ferocia della guerra, nessuna delle parti dei Paesi coinvolti (forze armate regolari e combattenti irregolari) le ha mai rispettate. E non mi riferisco soltanto a gruppi di fanatici, islamisti, induisti, di qualsivoglia religione o gruppo etnico, né soltanto a gruppi terroristici al limite (o oltre il limite) della criminalità comune. Mi riferisco agli Stati, a tutti gli Stati, siano essi retti da regimi autoritari o democratici.

Ben documentate (anche se sovente dimenticate) sono le torture, le uccisioni indiscriminate, le distruzioni gratuite inflitte dagli americani e dai loro alleati nelle loro ultime grandi guerre (Afghanistan, Iraq) e dai russi nelle loro (Afghanistan, Cecenia, Ucraina). Neanche Israele, Paese nato come riscatto dall’immensa ingiustizia subita dal popolo ebraico con la Shoah, si è astenuto dal perseguitare la popolazione dei territori occupati nel corso delle varie guerre condotte contro di esso per distruggerlo; e ha annesso territori conquistati militarmente, costretto alla fuga la popolazione, ha compiuto e compie rappresaglie in nome del principio della colpa collettiva, ignorando il diritto e le risoluzioni delle Nazioni Unite, semplicemente perché, al pari di ogni altro Stato, ha il potere di farlo.

Non importa che rappresaglia e punizione collettiva siano vietate dalle convenzioni internazionali e dal diritto umanitario: tutti gli Stati le hanno sistematicamente praticate nei conflitti tra di loro e molto più spesso nei conflitti con i “ribelli”, insorti, guerriglieri, terroristi o comunque li si chiami. I quali ribelli si sono comportati nello stesso modo uccidendo civili indiscriminatamente e prendendo ostaggi, come è appena avvenuto da parte dei guerriglieri di Hamas nel Sud di Israele. Sarebbe troppo facile indugiare in una narrazione di orrori e misfatti che dimostrano come le “guerre senza legge”, che non rispettano il diritto internazionale, non siano terminate nel 1946 ma continuino ancora oggi in Ucraina, in Israele, in Yemen, in Siria, in Somalia e in una trentina di altri luoghi in Africa, America, Asia e, sì, anche in Europa, dove in questo stesso momento si combatte, si distrugge e si uccide, nel disprezzo delle norme così faticosamente approvate nel corso di decenni di sforzi per umanizzare la guerra.

Se è vero che la guerra senza legge è di tutti i tempi e non conosce distinzioni di razza, di religione, di luogo e neppure di regime politico, si può trarre conforto dal fatto che le guerre contemporanee (degli ultimi cinquanta anni), se paragonate alle guerre moderne (a partire dalla fine del Cinquecento) sono meno frequenti e soprattutto meno letali, nonostante le vittime civili siano aumentate in un rapporto di una a dieci rispetto a quelle militari. Si può anche avere qualche motivo di ottimismo per il fatto che oggi, a differenza del passato, sempre più persone in tanti Paesi del mondo provano avversione per la guerra e la ripudiano perché immorale e per di più inutile. Ci si sta sempre di più allontanando dalla concezione della guerra, prevalente fin da tempi antichissimi, come prova di eroismo e di patriottismo, un evento doloroso ma glorioso in cui si mostra il valore dell’uomo. Forse, come scriveva Immanuel Kant, la consapevolezza della futilità della guerra e le ripetute sofferenze che essa provoca indurranno in un futuro che si spera non lontano gli Stati e i popoli a rinunciarvi.

Ad una condizione però: che si capisca e si riconosca che gli orrori, le morti, le distruzioni che abbiamo davanti agli occhi non sono semplicemente il risultato delle azioni o della volontà perversa di deliranti autocrati, di folli, fanatici, terroristi, o come li si voglia chiamare, ma sono opera di “normali” esseri umani che fanno quello che hanno sempre fatto e che ogni popolo ha fatto: soffrire e fare soffrire, uccidere e farsi uccidere, non perché siano intrinsecamente malvagi (almeno non tutti), ma perché non sanno fare altrimenti. L’unico modo per contrastare la guerra è capire che non è (quasi mai) risolutiva dei problemi che si sostiene ne sono la causa.

È su quei problemi (di interesse, ideologici), sulle cause e non solo sugli effetti, che la comunità internazionale ‒ e primi fra tutti gli Stati democratici che credono nel primato del diritto ‒ dovrebbero concentrare i propri sforzi per prevenire i conflitti e impedire che si trasformino in guerra aperta; lavorare cioè per comprendere le esigenze legittime dei contendenti cercando di soddisfarle, almeno in parte. Non la forza quindi, ma la diplomazia, non soltanto le proprie ragioni, ma il dialogo anche e soprattutto con il nemico.

Del resto è così che nella maggior parte dei casi finiscono le guerre: non con la vittoria totale, ma con un compromesso seguito al dialogo. Perché allora non cercare di raggiungerlo prima delle morti e delle distruzioni?

(Tratto da Enciclopedia Treccani)

 

 

L’UCRAINA È SOLO UN TEST


L’UCRAINA È SOLO UN TEST

E bisognava aspettare tanto tempo per scoprirlo?

Che non era la minaccia alla Russia che proveniva dalla Nato, o il desiderio dell’Ucraina a diventarne membro, il motivo dell’aggressione nei confronti dell’Ucraina, ma bensì un ben preciso obbiettivo radicato nella volontà di ridisegnare l’assetto geopolitico mondiale?

Ci ha pensato l’ineffabile Serghey Lavrov, uno delle numerose bocche di Putin, nella sua intervista all’agenzia di Stato cinese, Xinhua, a specificarlo.

«Prima l’Occidente prenderà coscienza delle nuove realtà geopolitiche, meglio sarà per lui e per la comunità internazionale. La nostra Operazione militare speciale contribuisce al processo di liberazione del nuovo mondo dall’oppressione neocoloniale dell’occidente, pesantemente intrisa di razzismo e complesso di superiorità».

Dunque non si trattava di “denazificare” l’Ucraina dal nazismo imperante, di liberarla da questo giogo opprimente, la loro “Operazione militare speciale” (non chiamatela “guerra”) è più ambiziosa.

Si tratta di liberare il mondo, nuovo, cioè quello che sorgerà, dall'”oppressione neocoloniale dell’Occidente” (sembra di essere tornati indietro negli anni ’70, ma in realtà i russi sono sempre uguali a se stessi da secoli).

L’Ucraina è solo un test.

Lo sospettavamo.

Lo sospettava anche Zelensky.

Gli Stati Uniti in modo particolare.

Bisogna “liberare” il mondo dal male.

Certo, al di là del sarcasmo, fa una certa impressione sentire chi, in genere da parte di dittatori o di regimi dittatoriali, voglia liberare qualcuno da qualcun altro.

L’Iran, per esempio, vuole “liberare” il Medio Oriente da Israele, i cinesi vogliono “liberare” la Cina dagli Uiguri, la Turchia se potesse, si libererebbe senza esitazione di tutti i curdi, ma la Russia vuole addirittura liberare il mondo.

Ci fu un altro che, quasi novanta anni fa, voleva liberare il mondo anche lui, prima di tutto dagli ebrei, poi dai rom, poi dai disabili, poi dagli omosessuali, poi da quelli che considerava untermenschen in generale.

Ma mi raccomando, i nazisti sarebbero gli ucraini.

 

SIAMO SOTTO RICATTO


SIAMO SOTTO RICATTO

I  russi, dopo aver riempito di armi ed esplosivi la centrale nucleare di Zaporizhzhia, hanno portato i familiari dei tecnici in Russia e tra poco deporteranno anche loro.

Perché, considerato che loro non sono in grado di farla funzionare?

Per fermare una guerra che non sa vincere, Putin potrebbe causare un incidente nucleare che porterebbe il mondo a gridare Basta. Basta.

Poi, semplicemente Putin per accettare lo stop alla guerra, chiederà il territorio che ha annesso con i referendum farsa. Col sistema di sempre nei paesi governati da dittatori.

Siamo sotto ricatto da tempo.

E tutti i complimenti che, negli ultimi anni, sono stati fatti a Putin, da parte dei politici del mondo, Biden compreso, risultano ridicoli, perché Putin, intanto, si fregava le mani e pensava “Mo li frego tutti”.

Ed è successo.

Putin, infatti,  da anni  preparava questa invasione.

Nessuno ne sapeva niente e tutto l’Occidente si era illuso che Putin fosse una persona affidabile.

Si è visto quanto.

Inutile gridare adesso.

Morale: diffidare sempre dei dittatori. Meditano sempre brutti scherzi e non sono mai leali.

 

PARADOSSI


PARADOSSI

Putin avverte il mondo che l’Ucraina che sta occupando, dopo averla invasa, non si tocca, è roba sua.

Cioè: invadere, occupare, annettere, riciclando la ritmica del “credere obbedire combattere” messo a punto dal trust di cervelli di Mussolini, quello buono, e Putin sarebbe chi non aspetta altro che un gesto di pace.

L’uomo con cui aprire solide trattative, l’uomo buono che mai terrà per sé quelle terre, così come fa il pescatore politicamente corretto, che rigetta in acqua il pesce pescato, dopo averlo contemplato e slamato,

Putin, quello che è stato costretto dagli Usa a invadere l’Ucraina, quello che da un anno sfalcia un intero paese. e ora, passo generoso dopo passo generoso, annuncia che chi lo attacca nei territori ucraini sotto il suo controllo, attacca direttamente Mosca, cioè lui.

Anche in questo caso, è evidente come gli Usa siano riusciti ad imporgli una linea di condotta.

Insomma, secondo non pochi anche a sinistra, Putin sarebbe solo una marionetta nelle mani di Washington.

È Washington che non vuole la pace e l’Europa dov’è?

E anche se ci fosse? Cosa cambierebbe?

Come si fa la pace con Putin se gli Usa non vogliono e lo costringono ad invadere e a requisire le terre occupate?

(SGUAZZANDO NEL MAR DEI PARADOSSI…)

 

RACCOLTO DI DOLORE


RACCOLTO DI DOLORE

Dalla “grande menzogna” a oggi: Russia e Ucraina.

La prima mossa fu la “Grande menzogna” escogitata da Stalin e a cui l’Occidente volle credere.

Il genocidio per fame dei contadini ucraini nell’Urss degli anni trenta, almeno cinque milioni di morti, quasi la metà bambini, privati del cibo con le requisizioni, venne fatta passare all’estero come una calamità naturale di cui le autorità comuniste non sarebbero state responsabili.

Assicuratasi l’impunità e la disattenzione del mondo, il Cremlino procedette sistematicamente dal 1930 e durante i tre anni seguenti, a eliminare la nazione ucraina, abbattendone le colonne portanti, sacerdoti e contadini che si rifiutavano di entrare nelle fattorie collettive.

Il silenzio continuò ad avvolgerlo Holodomor, come oggi è internazionalmente conosciuto quel genocidio, fino a quando uno storico inglese di nome Robert Conquest pubblicò nel 1986 “Raccolto di dolore, collettivizzazione sovietica e carestia terroristica”, un libro che spezzò il cerchio delle omertà, con un atto di accusa contro i responsabili.

Oggi quel volume è ripubblicato dalla Rizzoli (537 pagine, con prefazione di Marco Clementi e postfazione di Federico Argentieri), mantenendo la carica di sconvolgente denuncia, persino accresciuta dalla contemporanea e, per molti versi simile, invasione messa in atto dall’esercito di Mosca, sulle medesime terre.

Constatando le similitudini tra passato e presente, è possibile comprendere le premesse storiche e le motivazioni attuali di quanto sta avvenendo.

Agli occhi di Stalin, l’esistenza stessa della nazione ucraina costituiva una minaccia per la stabilità e legittimità della Russia bolscevica, che prevedeva secondo il dettato di Lenin, il superamento delle nazionalità interne e la diffusione all’estero della ideologia marxista-leninista.

Una frase del dittatore chiarisce la sua linea d’azione: “il diritto dell’autodeterminazione non può e non deve costituire per la classe operaia un ostacolo all’esercizio del suo diritto alla dittatura”.

Lo sradicamento della nazione ucraina diventava così una sacra missione che tutto giustificava: rastrellamenti, fucilazioni e torture, deportazioni, interventi dell’esercito contro chi osava ribellarsi.

Imponendo prelievi forzati di grano superiori alle capacità effettive di produzione delle fattorie, fu possibile annientare per inedia gran parte dell’odiata popolazione locale, fino a raggiungere vertici di orrore che giustificano la definizione di Conquest: l’ex paese più ricco dell’Urss divenne “un unico, immenso Bergen-Belsen”. E in effetti il paragone con la Shoah ebraica è inevitabile nel ripercorrere le tappe dello Holodomor.

A rendere ancora più impressionante il parallelo, c’è l’aspetto della ideologia marxista-leninista che sconfina nel razzismo: l’idea cioè che esista una “essenza di classe”, cioè che i rapporti economici determinino le coscienze degli individui, sicché nessun cambiamento o pentimento successivo può redimere i “nemici del popolo”, inclusi i familiari dei “kulaki” e i loro discendenti.

I Kulaki, appunto, cioè i contadini “ricchi” in quanto proprietari di una mucca o di un calesse, furono inventati dalla propaganda comunista, come nemici, meritevoli di estinzione.

Nella guerra d’invasione, oggi attuata dal Cremlino, non è difficile ritrovare la medesima propaganda leninista che definisce i resistenti “degenerati”, “drogati”, neonazisti” e servi del capitalismo occidentale.

Leggendo Conquest, distruzioni e deportazioni, arruolamento di criminali, riscrittura della storia recente, inviti alla delazione nei territori occupati, e decimazione della popolazione civile, richiamano il presente, e paiono confondersi con esso.

Ma c’è una differenza. La “Grande menzogna” degli anni trenta poté contare su connivenza e disinteresse occidentale, nel quadro dell’equilibrio del terrore determinato dalla guerra fredda e dagli accordi economici con l’Urss. Oggi, bruscamente risvegliati alla realtà, abbiamo tutti la possibilità di valutare e giudicare quanto sta avvenendo.

(Dario Fertilio)

[Dario Fertilio (1949), giornalista e scrittore, discende da una famiglia di origine dalmata e vive a Milano, dove insegna Teorie e tecniche della comunicazione all’Università degli Studi di Milano e collabora a vari quotidiani. Con l’ex dissidente antisovietico Vladimir Bukovskij, ha promosso il “Memento Gulag”, giornata della memoria delle vittime del comunismo e di tutti i totalitarismi, che si celebra il 7 novembre. È autore di saggi  (fra essi “Il virus totalitario” 2018) opere di narrativa (tra queste “La morte rossa”, 2004) e pièces teatrali (come “Uomini e cyborg”,  2016, dedicata alla guerra nel Donbas)]

 

 

 

LA GUERRA


LA GUERRA

La guerra in Ucraina si fermerà, i tavoli si apriranno, le mediazioni si cercheranno, solo se chi attacca ogni giorno, si fermerà.

Quando si fermeranno i missili, i cannoni, i carri armati russi, si fermerà la guerra.

E finalmente si avrà la pace.

 

 

 

 

 

 

 

UNA PRESA PER I FONDELLI


UNA PRESA PER I FONDELLI

Oggi, solo per ricerca di consenso popolare e opportunità politiche, non certamente per interesse nazionale, si cavalca la bandiera della pace, senza se e senza ma, creando una situazione di stanchezza psicologica che potremmo pagare caramente.

Frasi che circolano sempre più, come: “Stare nella Nato, sì, ma in modo critico”; “Sostenere gli ucraini, certo, ma senza essere supini agli americani”. «Armi per tenere in piedi l’Ucraina indipendente sì, per tenere in piedi la guerra no», sono la dimostrazione di una presa per i fondelli o una felloneria intollerabili.

 

 

L’HOLODOMOR


L’HOLODOMOR

L’Holodomor, la carestia dell’Ucraina pianificata da Stalin per punirla, è un crimine che, per crudeltà e barbarie, resta secondo soltanto all’Olocausto nazista.

Ma la condotta russa della guerra in Ucraina, nella galleria degli orrori dell’ultimo secolo e mezzo, è il crimine che occuperà il terzo posto.

Le stragi di civili inermi e la distruzione delle infrastrutture energetiche ucraine, per prendere quel popolo per freddo, buio e fame, è l’esatta replica dell”Holodomor staliniano.

E, anche per una guerra, è un crimine e un’illegalità.

Putin, inoltre, ha messo la situazione in un vicolo cieco.

Non ha vinto sul campo, non vuole e non può ammettere la sconfitta e, da autentico fuorilegge, pretende, come condizione di una trattativa, il riconoscimento del bottino: i territori ucraini annessi illegalmente.

Un furto e un’amputazione che nessuno al mondo-fosse l’Onu, gli Usa, l’Europa o il Papa- potrebbe mai imporre all’Ucraina.

Chi invoca la diplomazia conoscendo l’ignobile condizione di Putin, e tacendo su di essa, è solo un cialtrone o un emissario.

Senza rimuovere la pretesa di Putin di rubare territori annessi illegalmente, la guerra è in un vicolo cieco.

E può durare anni.

Ma il mondo civile e l’Onu hanno un’arma per impaurire i gerarchi russi, dividerli tra loro e costringerli a trattare senza la condizione del riconoscimento del furto: un tribunale internazionale per il processo ai crimini di guerra della cupola del Cremlino.

Se i due terzi dell’Assemblea Onu lo approva (è quello a cui si lavora), gli oligarchi russi si impauriranno, si divideranno e correranno ai ripari.

E forse, al di là delle chiacchiere dei finti pacifisti, la pace si avvicinerà.

 

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