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UNO CON LA CANOTTIERA


UNO CON LA CANOTTIERA

Uno con la canottiera – metaforica – è innanzitutto uno che in piena estate, a 35 gradi, indossa la canottiera – vera – sotto la camicia, “perché assorbe il sudore  e non mi prendo un accidente con certi spifferi”.

Una variante estrema di questa categoria  è costituita da quelli che mettono la canottiera sotto la t-shirt.

Uno con la canottiera ha il copri cellulare di finta pelle con gancio alla cintura, il pomeriggio arriva a casa e si mette in pigiama, conserva il suo vecchio cellulare e-tacs perché sono sempre quelli che funzionano meglio. Usa le mentine per profumare l’alito, il borotalco e il colluttorio.

Talvolta ha un preservativo nascosto nel portafoglio, non lo usa mai e però prima o poi la moglie lo scopre e gli fa il culo.

Uno con la canottiera dice frasi come:

pestare una cacca porta fortuna;

oggigiorno è impossibile trovare un parcheggio in centro;

oggigiorno i ragazzi non hanno interessi a parte la discoteca e i videogiochi;

io non ho niente contro gli omosessuali/gay/ i ricchioni/ i froci/ i finocchi, basta che a me li lasciano stare:

se uno è omosessuale /gay / ricchione/ frocio/ finocchio son fatti suoi ma non può mica fare il maestro;

condoglianze vivissime;

destra e sinistra sono tutti la stessa cosa, sono tutti ladri;

io lo capisco in anticipo quando cambia il tempo: mi fa male il gomito/ il ginocchio/ la caviglia/ il callo;

sbagliando si impara;

a buon rendere;

io non parlo da dietro, le cose le dico in faccia;

sbaglia chi lavora;

peggio che andar di notte;

bisogna alzarsi da tavola con un po’ di appetito;

finché c’è vita c’è speranza;

mi sembra ieri;

devo decidere a imparare internet/ andare in palestra/ mettermi a dieta/ rimettere a posto la bicicletta/ smettere di fumare eccetera  eccetera eccetera.

Ovviamente uno con la canottiera dice che non ci sono più le stagioni intermedie e che il caldo / il freddo secco non è un problema, è il caldo / il freddo umido che è insopportabile.

Le imprecazioni dell’uomo con la canottiera:

porco zio;

porca pupazza;

porca madosca;

porca troia;

 porca paletta;

perdindirindina;

non rompere le palle;

mannaggia a li pescetti;

non mi prendere per i fondelli;

vaffangagno:; vaffatica; vaffaincapo”

(Brano tratto da “Testimone inconsapevole” di Gianrico Carofiglio.

 

A COSA SERVE LA POESIA


A COSA SERVE LA POESIA

Vi faccio un esempio.

Prendete una coppia che va abbastanza bene: due o tre lustri di convivenza casa figli interessi comuni.

I coniugi però, non essendo né sordi né orbi, né privi di altri sensi, naturalmente non immuni dal notare che il mondo è pieno di persone attraenti dell’altro sesso di cui alcune, per circostanze favorevoli, sarebbero passibili di un incontro a letto. 

Sorge allora un problema che propone tre soluzioni. 

La prima è la tradizionale repressione, non concupire eccetera, non appropriarti dell’altrui proprietà, per cui il coniuge viene equiparato a un comò Luigi XVI o a un televisore a colori o a un qualsiasi oggetto di un certo valore che non sarebbe corretto rubare. 

La seconda soluzione è l’adulterio: altrettanto tradizionale che crea una quantità di complicazioni, la lealtà (glielo dico o non glielo dico?), lo squallore di motel occasionali, la necessità di costruire marchingegni di copertura che non eliminano la paura di fastidiose spiegazioni. 

La terza soluzione è senza dubbio la più pratica: si prendono i turbamenti e i sentimenti, le emozioni e le tentazioni, si mescolano bene,  si amalgama l’immagine con un brodo di fantasia e ci si fa su una poesia che si mastica e si sublima, fino a corretta stesura sulla macchina da scrivere e infine si manda giù, si digerisce con un po’ di amaro d’erbe naturali e poi non ci si pensa più. 

Joyce Lussu

LE VECCHIE FAVOLE


LE VECCHIE FAVOLE

Oggi le favole non si raccontano quasi più ai bambini, che le hanno sostituite con la televisione e le storie inventate per loro. 

Ne troverete scritte di nuove, alcune su questo blog, aventi come soggetti gli animali, (La cornacchia e l’agnellino; La mucca e il tacchino; Il rospo la tartaruga e il papero; Lo scoiattolo e la tamia; Il setter fedele; La gatta e la babbuina) tanto per cambiare il modo e i soggetti di raccontare e coinvolgere maschi e femmine allo stesso modo.

Alcune favole vecchie, tra le più note, però, sono sopravvissute e tutti le conoscono.  

CAPPUCCETTO ROSSO

È la storia di una bambina al limite dell’insufficienza mentale che viene mandata in giro da una madre irresponsabile per cupi boschi infestati da lupi, per portare alla nonna malata, panierini colmi di ciambelle. Con simili presupposti la sua fine non stupisce affatto. Ma tanta storditezza, che non sarebbe mai stata attribuita ad un maschio, riposa sulla fiducia che si trova sempre, nel posto giusto al momento giusto, un cacciatore coraggioso e pieno di acume (maschio naturalmente), pronto a salvare dal lupo nonna e nipote.

BIANCANEVE

È anche lei una stolida ochetta  che accetta la prima mela che le viene offerta, per quanto sia stata severamente ammonita di non fidarsi di nessuno. Quando i sette nani si offrono di ospitarla, i ruoli si ricompongono: loro andranno a lavorare, ma lei terrà la casa in ordine, rammenderà, pulirà, cucinerà e aspetterà il loro ritorno. Anche lei vive con la testa nel sacco, l’unica qualità che le si riconosce è la bellezza ma, visto che essere belli è un dono di natura nel quale la volontà dell’individuo c’entra ben poco, anche questo non le fa molto onore. Riesce sempre a mettersi negli impicci, ma per tirarla fuori deve, come sempre, intervenire un uomo, il Principe Azzurro, che regolarmente la sposerà.

CENERENTOLA

È il  prototipo delle virtù domestiche,  dell’umiltà, della pazienza, del servilismo, del sottosviluppo ella coscienza, ma non è molto diversa agli altri tipi femminili descritti meglio odierni libri di testo per le scuole elementari e nella  letteratura infantile. Anche lei non muove un dito per uscire dalla situazione intollerabile, ingoia umiliazioni e sopraffazioni, è priva di dignità e di coraggio. Anche lei accetta il salvataggio che le viene dato da un uomo come unica risorsa, ma non è poi certo che costui la tratterà meglio di quanto sia stata trattata fino allora.

Atri esempi in breve.

PELLE D’ASINO gareggia in sottomissione con Cenerentola.  GRISELDA, la pastorella sposata dal principe che ha trovato in lei la donna ideale, accetta di essere angariata sadicamente da lui perché fa parte delle esaltate virtù femminili subire, senza ribellarsi, qualsiasi sopraffazione.

 

Questo ideale femminile è sopravvissuto, dato che spesso nei libri di testo per i bambini la mamma viene tuttora descritta come una malinconica e servile creatura che sorride sempre anche  se la insultano.

Le figure femminili delle favole appartengono a due categorie fondamentali: Le buone e le malvagie.

“È stato calcolato che nelle fiabe dei Grimm l’80% dei personaggi negativi siano femmine”.  Non esiste, per quanta cura si ponga nel cercarla, una figura femminile intelligente, coraggiosa, attiva, leale. Anche le fate benefiche non usano le proprie risorse personali, ma un magico potere che è stato loro conferito e che è positivo senza ragioni logiche, così come nelle streghe è malvagio.

La figura femminile provvista di motivazioni umane, altruistiche, che sceglie lucidamente e con coraggio come comportarsi, manca del tutto.

La forza emotiva con cui i bambini si identificano in questi personaggi conferisce loro un grande potere di suggestione, che viene rafforzato dagli innumerevoli e concordi messaggi sociali.

Se si trattasse di miti isolati sopravvissuti in una cultura che non li fa suoi, la loro influenza sarebbe trascurabile, ma, al contrario la cultura è permeata degli stessi valori che queste storie contrabbandano, sia pure indeboliti e sfumati.

I pochi esempi riportati sono significativi  e permettono la verifica dell’esistenza, anche in questo campo, di forti spinte a carico delle bambine perché continuino  a identificarsi in modelli deteriori di “femminilità”.

 

(Tratto da : Dalla parte delle bambine – di Elena Gianini  Belotti  – Feltrinelli ed.)

 

 

IL DUCA


IL DUCA

Se cercate un romanzo che vi faccia compagnia in queste giornate uggiose invernali o semplicemente cercate un libro, Il Duca di Matteo Melchiorre non vi deluderà.

Un romanzo che sembra spuntato dal passato, addirittura dall’Ottocento, un classico per certi versi, eppure moderno, sicuramente intrigante, fascinoso e avvincente.

Il lettore viene trasportato a Valloràna, un piccolo paese di montagna.

Nella villa con relativa tenuta che guarda dall’alto il paese si ritira “il Duca” – così lo chiama la gente del posto – ultimo erede della potente e facoltosa dinastia dei Cimamonte.

Il Duca trascorre il suo tempo fra l’amministrazione dei possedimenti e la ricerca storica della sua famiglia, un po’ isolato dal paese e anche dalla vita.

Fino a che un suo fidato collaboratore lo informa che qualcuno gli sta portando via la legna.

Le successive indagini svelano un progetto più ampio, che mira a erodere i terreni del protagonista e a costruire una strada che conduca in altura, dove è in programma la realizzazione di una malga.

Inizia qui un duello, davvero epico  e che rievoca certi film western, fra il Duca e Fasdreda, il signorotto del paese, da tutti temuto, artefice di questo progetto.

Anche il Duca però mostra una fibra insospettabile, forse perché in lui si risveglia il senso di appartenenza a una grande casata storica.

Le schermaglie fra i due continuano, vedendo prevalere ora l’uno ora l’altro e finendo col coinvolgere l’intero paese.

A questo punto, la vicenda e di conseguenza il romanzo rischiano di diventare prevedibili.

Ecco allora un’invenzione che rimette in  moto la narrazione, cioè l’arrivo di Maria, una giovane con interessi artistici, che si avvicina al Duca, stringe amicizia con lui, e infine si rivela nipote dell’acerrimo nemico.

Lascio al lettore il piacere di seguire lo sviluppo del romanzo, mentre vale la pena fare qualche osservazione.

Sulla scrittura, anzitutto. Sinuosa, ricercata come di rado se ne incontrano nella letteratura contemporanea.

L’autore offre descrizioni molto belle del paesaggio, della natura che circonda la villa del protagonista, del bosco che, non coltivato, “si magia” tutto.

E ancora più stimolanti sono le riflessioni che si agitano nella mente del protagonista sul peso del passato, il significato di nobiltà e del sangue, sulla responsabilità e libertà individuale.

(Il Duca di Matteo Melchiorre  ed. Einaudi)

[Matteo Melchiorre, 41 anni, è direttore della Biblioteca del Museo e dell’Archivio storico di Castelfranco Veneto]

 

 

 

L’ALTA BELLEZZA…


L’ALTA BELLEZZA…

L’alta bellezza tua è tanto nova,
chi subito ti vede isprende tutto:
ciascun altro piacer si fa distrutto
ch’allato al tuo di sé vogli far pruova.
Tu se’ colei ch’a ogni cosa giova;
5        in te ogni vertù fa suo ridutto,
radice ramo fronda fiore frutto
d’ogni dolcezza ch’al mondo si truova.
In compagnia di tua somma biltade
è gentilezza puritade e fede
10      e adornezza e perfetta onestade.
Tu se’ tal maraviglia a chi ti vede,
alto valor sovr’ogni umanitade,
che discesa dal ciel ciascun ti crede.

Parafrasi

La tua grande bellezza è tanto eccezionale, (che) chi ti vede improvvisamente si illumina tutto: qualunque altra cosa bella, che voglia misurarsi con te, scompare. Tu sei quella che fa bene a tutte le cose, ogni virtù trova la propria dimora in te, (che sei) radice, ramo, fronda, fiore e frutto di qualunque cosa dolce si trovi al mondo. Accanto alla tua somma bellezza stanno la nobiltà, la purezza, la fede, la leggiadria e la perfetta dignità. Tu sei una così grande meraviglia per chi ti vede, grandissimo pregio al disopra di ogni altra misura umana, che ognuno ti crede discesa dal cielo.

Commento

In questo sonetto, dedicato alla bellezza spirituale e salvifica della donna, Sennuccio del Bene sembra riecheggiare da vicino il famoso Tanto gentile e tanto onesta pare di Dante (con il suo “venuta /di cielo in terra a miracol mostrare”) e la dottrina della donna angelicata, adorna di ogni virtù, che è propria del Dolce stil novo. Nella sua elegante misura stilistica, tuttavia, c’è qualcosa di nuovo e di più umanizzato, come nella visione quasi naturalistica della figura femminile paragonata a una pianta in tutte le sue fasi di sviluppo (radice ramo fronda fiore frutto), che apparenta il suo linguaggio a quello del giovane Petrarca, facendo delle sue Rime un ideale ponte di passaggio tra le due maggiori personalità liriche del tempo.

Sennuccio del Bene  (Firenze, 1275 circa – Avignone, 1349) è stato un poeta italiano appartenente al Dolce stil novo, guelfo banco.

È UNA STORIELLA MOLTO NOTA, MA MI PIACE TENERLA NEL BLOG


È una storiella molto nota, ma mi piace tenerla nel blog.

“Ho letto moltissimi libri, ma ho dimenticato la maggior parte di essi. Ma allora qual è lo scopo della lettura?”

Fu questa la domanda che un allievo una volta fece al suo Maestro.

Il Maestro in quel momento non rispose. Dopo qualche giorno, però, mentre lui e il giovane allievo se ne stavano seduti vicino ad un fiume, egli disse di avere sete e chiese al ragazzo di prendergli dell’acqua usando un vecchio setaccio tutto sporco che era lì in terra.

L’allievo trasalì, poiché sapeva che era una richiesta senza alcuna logica.

Tuttavia, non poteva contraddire il proprio Maestro e, preso il setaccio, iniziò a compiere questo assurdo compito. Ogni volta che immergeva il setaccio nel fiume per tirarne su dell’acqua da portare al suo Maestro, non riusciva a fare nemmeno un passo verso di lui che già nel setaccio non ne rimaneva neanche una goccia.

Provò e riprovò decine di volte ma, per quanto cercasse di correre più veloce dalla riva fino al proprio Maestro, l’acqua continuava a passare in mezzo a tutti i fori del setaccio e si perdeva lungo il tragitto.

Stremato, si sedette accanto al Maestro e disse: “Non riesco a prendere l’acqua con quel setaccio. Perdonatemi Maestro, è impossibile e io ho fallito nel mio compito”

“No – rispose il vecchio sorridendo – tu non hai fallito. Guarda il setaccio, adesso è come nuovo. L’acqua, filtrando dai suoi buchi lo ha ripulito”

“Quando leggi dei libri – continuò il vecchio Maestro – tu sei come il setaccio ed essi sono come l’acqua del fiume”

“Non importa se non riesci a trattenere nella tua memoria tutta l’acqua che essi fanno scorrere in te, poiché i libri comunque, con le loro idee, le emozioni, i sentimenti, la conoscenza, la verità che vi troverai tra le pagine, puliranno la tua mente e il tuo spirito, e ti renderanno una persona migliore e rinnovata. Questo è lo scopo della lettura”.

Buona lettura a tutti.

TIENI STRETTO


TIENI STRETTO CIÒ CHE È BUONO

Tieni stretto ciò che è buono,

anche se è un pugno di terra.

Tieni stretto ciò in cui credi,

anche se è un albero solitario.

Tieni stretto ciò che devi fare,

anche se è molto lontano da qui.

Tieni stretta la vita,

anche se è più facile lasciarsi andare.

Tieni stretta la mia mano,

anche quando mi sono allontanato da te. 

(Poesia Indiana)

DIMORA DI RUGGINE


DIMORA DI RUGGINE

C’è chi ha azzardato che Dimora di Ruggine dell’esordiente Khadija Abdalla Bajaber , faccia pensare a Moby Dick.

Nel rispetto delle distanze con il capolavoro di Melville, questo singolare romanzo di formazione della scrittrice kenyota, riporta alle atmosfere surreali e alle sfide del capitano Achab, a quel mare che è la metafora della vita e della morte.

La sorpresa è innanzitutto lei.

Un’autrice che, in totale solitudine, un giorno ha messo su carta un progetto «nato dall’amore e dalla tenerezza, dalla curiosità, dall’immaginazione» che è poi diventato il piccolo capolavoro che ha vinto la prima edizione del Graywolf Press Africa Prize.

Non facile da affrontare, perché affonda le sue radici in quell’Africa ancestrale che si tramanda di generazione in generazione nei suoi riti, leggende, tradizioni e che Khadija Abdalla ha assorbito fin dall’infanzia e Mombasa, dove è nata, una città di cantanti da matrimonio, astuti mercanti, grandi matriarche, pescatori scaltri e corvi attaccabrighe, ma soprattutto di cantastorie.

Protagonista Aisha, giovane figlia di un padre pescatore, sognatore, coraggioso e imprudente, maestro delle onde, che sin dall’infanzia l’ha portata sulla sua barca a esplorare il mare.

Un giorno il padre non ritorna e Aisha decide di andare alla sua ricerca nell’Altrove, con una barca incantata, fatta di ossa e la sola compagnia di Hamaza, un gatto parlante che viene dalla “Dimora di Ruggine”, luogo mai raggiunto dai marinai.

Da quel momento il viaggio dell’impavida adolescente diventa una sfida per conoscere se stessa, un’epica avventura che la porta a scontrarsi con mostri marini, con Baba wa Papa, il re degli affondati, con migliaia di squali che le vorticano attorno «come se qualcuno avesse fracassato la luna per poi abbandonarla sanguinante nell’acqua».

Più volte sul punto di soccombere, riesce a ritrovare il padre e riportarlo a casa, ma le battaglie affrontate le hanno insegnato a guardare la morte in faccia, a confrontarsi con il male e la violenza.

Le hanno permesso di scoprire i significati profondi dell’esistere, l’importanza di mettere sempre tutto in discussione per essere fedeli a sé stessi.

Hanno fatto di lei una nuova persona, decisa a sottrarsi a un matrimonio combinato, a ripartire per inseguire il sogno di libertà e autonomia che la tiene in ostaggio e per incontrare il proprio destino.

(Dimora di Ruggine di Khadija Abdalla Bajaber  Ed 66thand2nd)

[Khadija Abdalla Bajaber è una poetessa e romanziera nata a Mombasa, con una laurea in Giornalismo]

 

 

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NELLA TORMENTA


NELLA TORMENTA

Nonostante le strade siano coperte di neve e la viabilità difficoltosa e rischiosa, alla vigilia di Natale, Tom decide di mettersi in auto per andare a prendere il figlio, rimasto solo e malato nel pensionato di una università inglese.

 La moglie e la figlioletta lo chiamano in continuazione per capire come proceda il viaggio.

Nell’abitacolo della sua macchina la tensione cresce sempre di più e il lettore si rende conto che la posta in gioco di questa impresa va ben oltre il recupero del ragazzo. Sono dei flashback che aprono squarci nel passato che angoscia Tom, ma anche la moglie e a spiegare perché riportare a casa il figlio prima delle feste sia diventata una missione fondamentale, da non fallire per nessuna ragione al mondo.

Daniel: è lui, il figlio presente-assente, a fare da sottofondo ai pensieri di entrambi i genitori.

Tempo prima Daniel si era perso, aveva cominciato a frequentare brutte compagnie ed era caduto nella trappola della droga. Padre e madre avevano provato a tenere aperto un dialogo, a riportarlo sulla giusta strada, ma, soprattutto il padre, Tom, è dilaniato dal dubbio di non aver fatto il possibile per salvare il figlio, d8i aver sbagliato, di essere stato troppo duro.

E questa sensazione si allarga ad altre situazioni e relazioni della sua vita: persino il rapporto d’amore con la moglie sembra segnato da una colpa “originaria”.

Ma si è davvero macchiato di qualche grave peccato, questo padre provato e quasi disperato, oppure ha fatto tutto quanto era possibile? Il materializzarsi nell’auto che sta guidando dell’immagine di Daniel scaglia domande a cui Tom sente di dover rispondere, costringendolo ad una sorta di resa dei conti.

Nella tormenta è un racconto teso, disperato eppure misurato, a tratti si fa straziante, nel quale David Park riflette senza retorica su che cosa significhi essere padri, su che cosa voglia dire amare una persona cara e preziosa e sulle azioni che tale sentimento richiede.

Il viaggio nella bufera della neve del protagonista diventa viaggio interiore, forse addirittura percorso di espiazione alla ricerca della riconquista di un impossibile equilibrio, di una riconciliazione con il passato, affinché il futuro resti, almeno in parte, aperto.

L’autore sa trattare una materia così delicata in maniera incredibile e intensa, consegnando un romanzo che emoziona.

(Nella Tormenta – di David Park Ed. Bollati Boringhieri)

 

IL SETTER FEDELE


IL SETTER FEDELE

Prima che ci conoscessimo, mia moglie viveva in una fattoria. Una piccola azienda agricola, verdura biologica, un posto dove gli acquirenti si raccoglievano le fragole da sé, per intenderci e una decina poco più di galline, tutto, a sentire lei, “una più oca dell’altra”. La prima volta che lo disse mi misi a ridere, perché trovavo curioso il fatto di usare il nome di un animale da cortile per insultarne un altro. Un po’ come “vacca”, che lei usa in continuazione. Per esempio, con questa prociona che ogni tanto ci viene a rovistare nei bidoni della spazzatura; “Ma la faccia tosta di quella vacca?” dice mia moglie con il naso premuto conto la finestra della sala da pranzo. Poi si mette ad  abbaiare: “Oh!, brutta asina! Va a far casino nel cortile di qualcun altro!”.

Attribuisco il linguaggio di mia moglie al fatto che è per un quarto spaniel. Lei dice solo per un ottavo, ma non scherziamo, le orecchie parlano chiaro. Le orecchie e la bocca.

Eppure non riesco a non amarla. Le ho perdonato perfino i tradimenti. «Sono anche figli tuoi» mi ha detto, riferendosi all’ultima cucciolata, quattro cagnolini che al sottoscritto non somigliano più della prociona vacca di cui sopra. So che il padre è un bull terrier inglese che abita di fronte, ma cosa volete che faccia? Un errore lo si perdona a tutti, no?

Vorrei poter dire che quel terrier l’ho odiato sin dall’inizio, che mai, nemmeno per un secondo, mi sono fidato di lui. Ma che figura ci faremmo, io e mia moglie, ad avere gusti tanto diversi? Se proprio volete saperlo, a lui non avevo neppure mai badato più di tanto. Mi ero accorto di quant’era brutto, certo, di quegli occhietti piccoli e inquietanti. Era anche abbastanza evidente che fosse stupido, ma non posso certo dire che mi fossi fatto un’opinione “ufficiale”. Almeno finché non è arrivata la cucciolata.

Insomma, sono nati questi cagnolini, e non più tardi di una settimana dopo, il bull terrier ha morso una bambina in piena faccia, praticamente strappandogliela via. Una bimba bionda, che abita nella casa accanto alla sua.  Io ero sul sedile posteriore della macchina, stavamo giusto entrando nel vialetto di casa, quand’è arrivata l’ambulanza. Non vi dico la scena. I genitori erano fuori si sé.

«Capirai» ha detto mia moglie con uno sbadiglio, quando quel pomeriggio gliel’ho raccontato.«Non è che non possono averne altri, di figli».

«Prego?» le faccio.

E lei: «Quando si tratta di noi, la pensano così. Perché con loro dovremmo comportarci diversamente?».

«Stai dicendo che dobbiamo abbassarci al loro livello?» lo ho detto. Quanto al bull terrier, mia moglie ha ammesso che era un po’ una testa calda. Che in effetti non aveva un gran senso dell’umorismo. Però non l’ha mai condannato esplicitamente, come invece avrei tanto voluto che facesse. Quando l’hanno portato via per abbatterlo, ha passato tutta la giornata col muso lungo. «Ho mal di testa» ha detto ai ragazzi. «Mamma ha un mal di testa tremendo». Ha detto la stessa cosa anche il giorno dopo. E per tutta la settimana successiva, sempre con lo sguardo perso verso la casa al di là della strada, dov’era vissuto il suo fidanzato.

Poco tempo dopo, la bambina è tornata a casa dall’ospedale con la testa tutta fasciata. Le avevano fatto due buchi per gli occhi, altri per il naso e per la bocca, e ciascuno era impiastrato del relativo liquido corporeo: lacrime, muco, bava. Per quanto uno detestasse i bambini, non poteva provare compassione. O almeno così pensavo. Mia moglie, invece – lo si capiva chiaramente –  attribuiva tutta la colpa alla bambina, ed era convinta che, non fosse stato per lei, il bull terrier non avrebbe fatto la triste fine che ha fatto.

Pensando che col tempo l’avrebbe dimenticato, mi sono messo tranquillo e ho cercato di portare pazienza. Un po’ ha contribuito il fatto che a un certo punto il nostro padrone ha messo un annuncio sul giornale e si è sbarazzato di quei poveri cuccioli. Ho pianto,certo, ma più per mia moglie che per me stesso.

Non fraintendetemi, auguro loro ogni bene. Solo, non sento il bisogno di rivederli.

Rimasti noi due soli, speravo che le cose tornassero alla normalità. E’ stato allora che il nostro padrone ha portato mia moglie a fare un’isterectomia. L’hanno operata in anestesia totale, non ha visto né sentito niente., si è addormentata fertile e si è svegliata vuota. Le hanno tolto tutto quanto, utero e compagnia bella.

Le ho spiegato che per me non aveva la minima importanza. Mi ha ringhiato: «Certo, che non ce l’ha, anzi, sono sicura che a te va benissimo».

«Che cosa vuoi dire?» le ho chiesto.

«Perché sei convinto che così non posso più tradirti. O che, se lo faccio, almeno non ci saranno conseguenze».

Sembrava desse la colpa dell’isterectomia a me. Le ho detto: «Amore, non fare così».

Non mi ha rivolto la parola per tre giorni. Cosa le passasse per la testa, nessuno lo sa. A me, in compenso,  continuava a tornare in mente questo weimaraner che avevo conosciuto nel recinto per i cani ai giardinetti. Aveva uno di quei padroni che per comunicare con te si mettono a quattro zampe, e mica si limitano ad abbaiare, si rotolano sulla schiena, ti vengono incontro a testa bassa e via dicendo. Lì ai giardinetti ce ne sono un bel po’, di tipi così – “squilibrati”, è la parola – ma questo li batte tutti. Lo scorso autunno è andato in ospedale a farsi togliere le tonsille, non gli facevano male, non erano gonfie né niente. Voleva averle e basta “in un barattolino” pare abbia detto al medico. “ E mi raccomando: non tagli via il grasso”.

La sera, tornando a casa, ha affettato le tonsille con un coltello, e pezzettino dopo pezzettino, le ha date da mangiare al weimaraner, come a dirgli: “Ecco, cucciolone, vedi?  Ti voglio così bene che ti do un  pezzetto di me”.

«E …» ho detto io.

«Ricordano molto il pollo» mi aveva spiegato il weimaraner. Per cui ecco a cosa pensavo, nel periodo in cui io e mia moglie non ci parlavamo. “Chissà che sapore aveva la roba che le hanno tolto”. Un pensiero folle, lo so, ma non riuscivo a togliermelo dalla testa. Era indice di una mia propensione al cannibalismo? O il tipo di carne  in questione – il fatto che si trattasse del suo utero – riduceva quei pensieri a una normalissima fantasia sessuale?  Mi sarebbe piaciuto parlarne, ma, vista l’aria che tirava in casa, ho ritenuto più saggio tacere.

È stato proprio allora, mentre mia moglie si struggeva per il fidanzato morto e io facevo pensieri macabri da psicopatico, che è riapparsa la bambina fasciata. A quanto pare c’erano state delle complicazioni, Un’infezione o qualcosa del genere, e avevano dovuto ricoverarla di nuovo.  L’abbiamo vista dalla finestra del salotto, giusto un attimo, mentre saliva in macchina con i genitori. «Guardala lì, Miss Perfettina» ha sibilato mia moglie. Erano le prime parole che le uscivano dalla bocca dopo quella che mi era sembrata un’eternità. Poi è andata nello studio a stravaccarsi davanti alla tele. È il suo modo per starsene da sola, dato che io la televisione la detesto. Non tanto per i programmi, è l’apparecchio in sé che non sopporto. Puzza tremendamente, e così mi fermo sempre sulla porta, parcheggiato dove comincia la moquette.

«Ecco, signor Snob, stattene lì» ha detto mia moglie. Mi chiama sempre così quando non siamo d’accordo su una cosa, che sia un giocattolo da masticare o l’odore di un elettrodomestico. «Sarà che io non sono beneducata come te» mi dice. Ed è vero, non lo è.

Così com’è vero che è lei che lo ripete in continuazione. A parlare, in questi frangenti, è la sua insicurezza, il suo insanabile senso d’inferiorità da bastardina di campagna, per cui io cerco di lasciar correre.

Mia moglie tira in ballo il mio pedigree ogni volta che le girano le scatole, oppure quando mi chiamano per una monta, che non equivale ad un tradimento, checché se ne dica. L’infedeltà comporta una scelta, mentre nel mio caso dipende da cause di forza maggiore.

«Queste femmine non mi desiderano più di quanto io desideri loro» spiego a mia moglie. «Non sono scappatelle, è lavoro. È il mio mestiere, vivaddio».

Lei allora ribatte che, se quello che voglio è uno stipendio, posso tranquillamente fare da guida a un cieco. «Oppure, meglio ancora, annusare i bagagli all’aeroporto con quel tuo nasino tanto sensibile che detesta la tele ma impazzisce per l’odore dei libri».

«Non di tutti i libri» rispondo io. Ed è vero. I thriller non li sopporto.

Proprio nel bel mezzo di questa nostra crisi, con i punti di mia moglie ancora freschi, ecco che mi mandano a fare un servizio. Una femmina che abita a qualche ora di viaggio da casa nostra, verso ovest. Di solito arrivi, fai quello che devi fare e te ne vai, solo che dove sta lei è una zona bellissima. Coperta di boschi, con un sacco di colline, e così, anziché aspettare che finissi, il mio padrone ha deciso di scaricarmi lì e passare il resto della giornata a girare in macchina.   L’atto in sé – sinceramente fatico a considerarlo sesso – è durato non più di un minuto. Poi, io e questa femmina ci siamo messi a chiacchierare. Lei è una setter irlandese pura, come me, e già avevamo in comune questa cosa. Entrambi, da ragazzi, ci siamo fatti i vermi a spaghetto, e entrambi, pensate la coincidenza, piace da morire il gusto e la consistenza delle candele. «Tranne di quelle profumate» mi fa lei.

«Le peggiori sono quelle cheap alla vaniglia» ho buttato lì.

Era d’accordo, e ha anche detto che aggiungere “cheap” era superfluo. «Tutte le candele alla vaniglia sono cheap».

Le ho raccontato che, una volta, da cucciolo, avevo masticato una candela alla cannella, e mentre lei, partecipe, ululava di disgusto, ho pensato a mia moglie e a quale effetto avrebbe fatto alle sue orecchie la nostra conversazione, “Spocchiosi” ci avrebbe definiti. “Con la puzza al naso che avete, se scoreggiate manco ve ne accorgete” E questo per la grave colpa di preferire una cosa a un’altra.

«Lo sai cos’altro non sopporto?» ho detto alla femmina. «i deodoranti per ambienti, men che meno uno al cocco».

«Oh, non saprei» mi ha risposto. «Secondo me è una bella gara con quelli alla ciliegia»

«Oddio. Quelli alla ciliegia!» ho esclamato io, chinandomi in avanti come per vomitare.

Dai deodoranti siamo passati alle assi da gabinetto imbottite, alle cassette della posta dalle forme buffe e agli incroci barboncino-labrador, i labradoodle.

Lei si stava giusto avventurando nel jazz contemporaneo, quando io le ho proposto di tentare un secondo giro di inseminazione. «Casomai il primo non fosse riuscito».

«Non me lo faccio ripetere due volte» ha detto lei.

Non ho dovuto insistere nemmeno per il terzo round, e quello dopo praticamente è venuto da sé. «Una scossa d’assestamento» l’ha definita lei. Alcuni potrebbero considerarlo un tradimento, per me è soltanto un lavoro ben fatto. E va detto che sul mio stato civile sono stato chiarissimo quasi da subito.

«Tua moglie? Ha detto la femmina, «e com’è successo?».

Le ho spiegato che ci siamo sposati tramite la fidanzata del mio padrone. «Ex fidanzata, ormai» ho aggiunto.

«Non so quanto sia vincolante, però non vorrei stare con nessun’altra». Ed è vero che non vorrei. Mi piace, tra le altre cose, sapere che m ia moglie ha bisogno di me. Non fosse per la mia influenza, di sicuro avrebbe già terminato il lavoro iniziato dal suo fidanzato. La bambina di fronte sarebbe ancora più sfigurata di quanto non lo sia già, e poi per cosa? «Tu non sei così» continuo a ripeterle. Al momento, però, è come preda di un incantesimo. Questo, alla femmina, l’ho spiegato come meglio ho potuto, e quando ho finito ho piegato la testa da un lato.

«Cioè tua moglie si è fatta fare il lavaggio del cervello da un bull terrier inglese?»

«Qualcosa di simile»

«Dio» ha detto lei, «io li detesto, i bull terrier inglesi»

E lì è arrivata la scossa di assestamento.

Era quasi buio quando il padrone è tornato e siamo ripartiti verso casa. C’era l’aria condizionata accesa, ma con qualche guaito sono riuscito a fargli  abbassare il finestrino. Avevo la testa fuori ed eravamo in viaggio da non più di venti miniti, quando siamo passati davanti ad un edificio in fiamme. Una casa a tre piani, circondata da un muretto di mattoni. Il padrone si è fermato, e prima che potesse impedirmelo sono balzato giù dal sedile e l’ho raggiunto sul prato. Ci fosse stato anche mia moglie, ci avrebbe  obbligati a risalire in macchina, ma io sono piuttosto affidabile anche senza guinzaglio.  E poi con me fa sempre bella figura, lo faccio sembrare più interessante di quel che è.

Un gruppetto di persone aveva cominciato a raccogliersi intorno a una donna a piedi nudi  e in pantaloni della tuta. Avvicinandomi ho visto che in braccio aveva un dachshund, di quelli a pelo lungo. Tutti la guardavano mentre gli tirava indietro le orecchie, baciandolo e ribaciandolo sulla fronte, mentre lui si contorceva e non vedeva l’ora di saltare giù.  Solo quando un signore anziano si è avvicinato alla donna e l’ha stretta tra le braccia, il, cane è riuscito a liberarsi. Allora ci siamo messi a parlare un po’. e mi ha raccontato che la donna, quando aveva sentito odore di fumo e si era accorta che la casa andava a fuoco, l’unica cosa che aveva preso, prima di precipitarsi fuori era stato lui. «Gentile da parte sua, niente da dire» ha precisato il dachshund, «solo che lì dentro aveva anche un figlio minorenne» Con la testa indicò una finestra al secondo piano da cui usciva del fumo nero. «Lui e la madre non facevano che scannarsi, però con me, quel povero ragazzo è sempre stato gentile».

Il dachshund sospirò, e quando la donna si chinò a raccoglierlo per un attimo intravidi il suo triste destino. “potevo mettere in salvo qualsiasi cosa, e invece ho scelto te”.

Chi mai vorrebbe vivere con un peso del genere?

Mentre gli auguravo buona fortuna, sono arrivati i pompieri. In tre sono partiti verso la casa, e poco prima che ci arrivassero, un pezzo di tetto è crollato. Le scintille sono schizzate verso il cielo sempre più scuro, e mentre ricadevano a terra scoppiettando, un odore di carne bruciata mi ha ricordato che avevo una gran fame. Se tutto andava bene, tornando a casa, il mio padrone si sarebbe fermato da qualche parte a comprare due hamburger, uno per me e uno per lui, avvolti nella carta. Dopodiché puzzando di fumo e di ketchup, sarei tornato dalla mia avvilita moglie, e avrei continuato a dedicarmi al lungo lavoro di amarla.

(Da “Bestiole e bestiacce” di David Sedaris)