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Vasilij Grossman e la distopia totalitaria


Vasilij Grossman e la distopia totalitaria

Vasilij Grossman pubblicò Stalingrado nel 1952, ma il titolo da lui scelto fu sostituito con  La giusta causa. Si trattava di un’espressione del commissario agli Esteri Molotov, che lasciava trasparire la volontà di “giustificare”, con la Grande guerra patriottica, le ambiguità del Patto Ribbentrop-Molotov e le iniquità degli anni dello stalinismo.  Stalingrado costituisce il primo volume di una dilogia che ha il suo seguito in Vita e destino, pubblicato a Losanna nel 1980. L’opera di Grossman, a causa dei diversi interventi della censura sovietica, ebbe più stesure. L’autore dovette infatti operare dei tagli e delle integrazioni, al fine di far risaltare aspetti che, secondo i canoni rigidi del Realismo socialista, erano stati messi in ombra dall’attenzione riservata a vicende individuali o alla comunità ebraica ucraina.  Tutto ciò ha reso particolarmente arduo il lavoro di ricostruzione filologica del testo, curato da Robert Chandler e Jurij Bit-Junan e tradotto quest’anno in italiano per Adelphi da Claudia Zonghetti.

Nelle prime pagine del romanzo Grossman descrive l’incontro dell’aprile del 1942 fra Mussolini e Hitler a Salisburgo, in cui i due dittatori discutono dell’imminente piano nazista di attacco all’URSS. Dai grandi saloni freddi del castello salisburghese di Klessheim, arredato con mobili sottratti alla Francia, la scena si sposta poi nella campagna russa, dove il contadino Vavilov riceve la chiamata alle armi nel momento meno opportuno. Se infatti al distretto militare avessero aspettato un paio di mesi, “sarebbe certamente riuscito a lasciare la famiglia con cibo e legna per un anno”.  Prima di partire Vavilov, insieme alla moglie, guarda intensamente le pareti della sua isba. Lei sapeva, scrive Grossman, che sarebbero state “testimoni di tutta la sua solitudine”. Lui invece avrebbe voluto portare con sé “quella che considerava la più bella casa del mondo”. Si coglie in queste pagine iniziali come Grossman, pensando a Tolstoj, voglia guardare ai grandi eventi che hanno segnato la storia anche con lo sguardo degli uomini comuni, vittime o esecutori ignari di decisioni che li sovrastano.

Per un personaggio del romanzo, il vecchio bolscevico Mostovskoj, che rifletteva una opinione largamente condivisa, la nuova Russia sovietica era balzata in avanti di un secolo, trasformando ciò che sempre era sembrato immutabile, come l’agricoltura o il corso dei fiumi. Era stato raggiunto un livello di alfabetizzazione “paragonabile solo a un’esplosione solare di potenza astronomica” che se fosse stata tradotta in onde elettromagnetiche, “gli astronomi della altre galassie avrebbero registrato la nascita di una nuova stella”. I protagonisti di questa rivoluzionaria trasformazione erano ingegneri e operai, piloti e marconisti e “i milioni di lavoratori che costituivano le fondamenta della nuova società”. La loro forza derivava “dalla fiducia, dalla conoscenza e dall’amore per la Patria sovietica”. Si può intuire che pagine come questa potrebbero essersi rese necessarie per bilanciare parti del romanzo in cui i censori di regime ritenevano non emergessero adeguatamente le virtù socialiste.  In un passo degli ultimi capitoli Grossman descrive il tragitto che il camionista Krymov percorre dal fiume Achtuba al Volga. Krymov prova una grande emozione nel leggere dei cartelli con scritte come “Non un passo indietro”, “Difendiamo Stalingrado” e si chiede se quanti percorreranno quella strada, negli anni a venire, penseranno a come poteva apparire nell’ottobre del 1942. Immagina allora di dar voce ai pensieri di un vecchio che fra un migliaio d’anni attraverserà quei luoghi, pensando agli uomini “della remota epoca della Grande Rivoluzione, dei giganteschi cantieri”, che marciarono verso il Volga, facce semplici e buone, “che indossavano divise d’altri tempi, scarpe d’altri tempi, e avevano delle stelle rosse sui berretti”. In questa evocazione epica Grossman riprende i versi del libro VIII dell’Odissea (751-752), in cui Omero racconta che piacque agli Dei, da cui dipese la guerra di Troia, “che degli eroi le morti \ Fossero il canto dell’età future”.

Il tono epico di queste scene coesiste, in Stalingrado, con l’attenzione alle vicende tragiche che sconvolgono le vite di ogni famiglia e di ogni uomo. Nel descrivere la tremenda distruzione della città, Grossman definisce ancora più tremenda la morte di “un esserino di sei anni schiacciato da una trave di ferro. Perché se esiste una forza capace di risollevare dalla polvere città enormi, non c’è forza al mondo in grado di risollevare le palpebre dagli occhi di un bambino morto”. Le ragioni della Grande storia non possono ignorare infatti le ferite che producono sulle persone più indifese.

Grossman partecipò alla guerra in prima linea, dal 1941 al 1945, descrivendone nei suoi taccuini gli aspetti più eroici e più inquietanti. Nel 1944 raccontò in particolare il massacro di migliaia di ebrei ucraini a Berdicev, la sua città natale, ad opera dei nazisti. Insieme a Il’ia Erenburg curò poi Il libro nero, in cui furono documentate le stragi compiute dai nazisti sugli ebrei russi, ma tutto il materiale raccolto fu sequestrato dall’ NKVD dopo la guerra, quando la politica antisemita di Stalin non consentiva più di volgere particolari attenzioni alle vicende ucraine e alle comunità ebraiche in particolare. Se i nazisti avevano commesso terribili atrocità, Stalin si era reso responsabile della terribile carestia ucraina del 1932-1933 e di feroci persecuzioni nei confronti della popolazione ebraica. In Vita e destino Mostovskoj, che abbiamo incontrato in Stalingrado, si trova a confrontarsi, nel lager in cui è rinchiuso, con Liss, un ufficiale delle SS. Liss afferma con convinzione che i comunisti rinchiusi da Hitler nei campi di concentramento erano già stati segregati in URSS da Stalin. Non bisogna dimenticare peraltro che in seguito al patto Ribbentrop-Molotov i sovietici consegnarono ai nazisti i comunisti tedeschi che si erano rifugiati in URSS. La persecuzione degli ebrei, proseguiva l’ufficiale tedesco, non era inoltre estranea alle scelte politiche degli stessi sovietici: “Oggi la spaventa il nostro odio per i giudei. Può darsi che domani vi avvarrete voi della nostra esperienza”. Per riuscire a respingere le affermazioni di Liss, scrive Grossman, Mostovskoj avrebbe dovuto rinunciare a ciò per cui aveva vissuto. Non solo condannare, ma odiare con tutta la forza dell’anima e con tutta la passione rivoluzionaria “il lager, la Lubjanka, il sanguinario Ezov, Jagoda, Berja! Non basta, bisognava odiare Stalin e la sua dittatura! Il cammino conduceva all’abisso”. Liss si chiede in cosa possa consistere l’inimicizia fra i due totalitarismi. Hitler non era affatto, a suo avviso, al servizio dei capitalisti, dal momento che è lo stato a indicare loro gli obbiettivi da perseguire nello spirito di quella pianificazione che l’URSS segue rigidamente: “Noi siamo forme differenti di un unico essere […]. Il vostro stato partitico, esattamente allo stesso modo del nostro, stabilisce il piano, il programma, e si accaparra la produzione. Quelli che voi chiamate padroni, gli operai, anch’essi ricevono lo stipendio dal vostro stato partitico”. Voi come noi, prosegue Liss, “siete consapevoli che il nazionalismo è la principale forza del XX secolo. Il nazionalismo è lo spirito dell’epoca! Il socialismo in un solo paese è la più alta espressione del nazionalismo […]. Sulla terra ci sono due grandi rivoluzionari: Stalin e il nostro grande capo. La loro volontà ha dato vita al socialismo nazionale dello stato. Per me la fratellanza con voi è più importante della guerra contro di voi per i territori orientali”.

Per realizzare il socialismo in un solo paese Stalin ha dovuto privare i contadini della proprietà privata e ne ha sterminati in gran numero e Hitler, resosi conto che gli ebrei ostacolavano il nazionalsocialismo, ha deciso di distruggerli, conclude Liss e, fissando Mostovskoj, che è rimasto ammutolito, aggiunge di sentirsi uno specchio di fronte a lui.

Qualche anno più tardi, in Tutto scorre, Grossman scriverà che Lenin, il fondatore dell’Internazionale comunista, aveva in realtà preparato il terreno per uno sviluppo inaudito dell’autocrazia e della sovranità nazionale.  Il principio della “non-libertà”, coltivato con zelo da Ivan il Terribile, come da Pietro il Grande e da Caterina, e accolto da Lenin, giunse poi al suo massimo trionfo con Stalin, nell’identificazione di stato, partito, polizia segreta. In tutto ciò Grossman vede il baratro profondo che separava lo sviluppo dell’Occidente, “fecondato dalla crescita della libertà”, dallo sviluppo della Russia, “fecondato dalla crescita della schiavitù”. Il comunismo sovietico aveva assunto in sé i tratti del dispotismo asiatico, che lo contrapponevano alle liberaldemocrazie e alle socialdemocrazie occidentali, ferocemente avversate. La Russia postsovietica ha ereditato questo modello autocratico, che si esprime nelle forme di una democrazia illiberale e nel rifiuto dei principi fondamentali dello stato di diritto.

Tutto scorre rappresenta una continuazione della dilogia. Si salvò dal sequestro di tutti gli scritti di Grossman e fu pubblicato postumo a Francoforte nel 1970. Qui il disincanto nei confronti del sistema sovietico diviene aperta denuncia. Il romanzo narra la vicenda di Ivan, che, avendo trascorso trent’anni nei Gulag, torna libero dopo la morte di Stalin.  Ivan vive in una condizione di spaesamento, a Mosca come a Leningrado, e sceglie di stabilirsi in campagna dove si dedicherà al lavoro di fabbro. Anna, una vedova di guerra di cui si innamora, gli racconterà le atrocità commesse contro i kulaki e la tragedia della carestia degli anni trenta voluta da Stalin.

Nel carattere di Stalin, in cui l’asiatico si fondeva con il marxista europeo, si poteva cogliere, scrive Grossman, il senso del sistema statale sovietico. I piani quinquennali, “piramidi del ventesimo secolo”, come i monumenti dell’Asia antica, seducevano il suo animo e incarnavano uno spirito tirannico che negava qualunque forma di libertà. Ivan dice che una volta aveva pensato che la libertà fosse quella di pensiero, di stampa, di opinione, ma si era convinto, nel tempo, che essa coincide con la vita della gente, “è il diritto di seminare quel che vuoi, di fare scarpe, soprabiti, di cuocere il grano che hai seminato per venderlo o non venderlo come vuoi tu; e anche se fai il meccanico, o il fonditore, o l’artista, vivi e lavora come vuoi tu, e non come ti ordinano. Invece non c’è libertà, né per chi scrive libri, né per chi coltiva grano o fa gli stivali”.

Grossman si chiede spesso se si possa accettare la concezione hegeliana secondo cui tutto ciò che è reale è razionale, perché, se fosse così, rischieremmo di giustificare la disumanità.  Si sarebbe forse sentito più vicino ad Alexandr Herzen, per il quale era impossibile dimostrare un ordine razionale della storia, che gli appariva come “l’autobiografia di un pazzo”. Parole, queste, commentava Isaih Berlin, che anche Voltaire o Tolstoj avrebbero potuto pronunciare con uguale amarezza.

Grossman, scrive Tzvetan Todorov, è sicuramente l’erede dei grandi russi del XIX secolo, del Dostoevskij de I Demoni e de I fratelli Karamazov e del Tolstoj di Guerra e pace, ma l’autore con cui avvertiva il legame più forte era Cechov, perché riconosceva in lui un umanesimo fondato sulla libertà e sulla bontà. Grossman, come Cechov, privilegiava la bontà sul bene, perché riteneva che le dottrine del bene portassero con sé il difetto insormontabile di porre al vertice “un’astrazione, non gli individui umani”. Consapevole di questo, il folle in Dio Ikonnikov può dire, in Vita e destino, che “anche Erode non versava sangue in nome del male”. La “tentazione del bene”, che caratterizza i totalitarismi descritti in tutta l’opera di Grossman, dimentica infatti gli individui per i quali questo bene era stato pensato e, come scrive Todorov, si traduce tragicamente in una “pratica del male”.

(art. di Elio Cappuccio)

[Elio Cappuccio è Presidente del collegio di Filosofia siciliano. Insegna Filosofia moderna e contemporanea all’Istituto Superiore di Scienze Religiose San Metodio]

QUELLA DI PRIMA…..


QUELLA DI PRIMA…..

La signora Gelmini, ex ministra della scuola, pensò, qualche anno fa, che la Storia, la Geografía, e la storia dell’Arte, non fossero materie importanti e quindi si potevano togliere dagli insegnamenti nelle scuole e, su questa convinzione, costruì una riforma, votata da Lega e FdI.

La signora Gelmini, ex ministra della scuola, pensò, qualche anno fa, che in una classe potevano starci 40 studenti senza problemi e, su questa convinzione, costruì una riforma, votata da Lega e FdI.

La signora Gelmini, ex ministra della scuola, pensò, qualche anno fa, che la scuola privata o paritaria meritasse più della scuola pubblica e, su questa convinzione, costruì una riforma, votata da Lega e FdI.

La signora Gelmini, ex ministra della scuola, pensò, qualche anno fa, che bisognasse tagliare i finanziamenti alla scuola pubblica e, su questa convinzione, tolse 8 miliardi dall’importo presente nella relativa voce di bilancio. Il taglio impedì qualsiasi investimento per anni. Dai banchi all’edilizia scolastica. Introdusse il taglio in una riforma votata da Lega e FdI.

La signora Gelmini, ex ministra della scuola, pensò, qualche anno fa, che il personale della scuola fosse eccessivo e, su questa convinzione, introdusse il blocco totale del turn-over e di nuove assunzioni per 10 anni, in una riforma votata da Lega e FdI.

E così la riforma della signora Gelmini, ex ministro della scuola, si concluse con un dimezzamento degli insegnanti (e del personale ausiliario), un aumento degli alunni nelle classi (si formarono le classi pollaio) e quindi l’eliminazione di aule, e la diminuzione della materie, di insegnamento. Il tutto approvato da Lega e FdI.

Hai voglia a rimediare! Anche se poi finanziamenti alla scuola, sono arrivati, la distruzione scolastica era stata davvero disastrosa e rimediare richiedeva tempo (che non c’è stato).

Adesso, il peggior ministro della scuola della storia Repubblicana, la signora Gelmini, autrice di quella catastrofica riforma che ha distrutto la scuola italiana, insieme a Salvini e Meloni che quella riforma votarono, si permettono di attaccare l’attuale Ministro pro tempore che, invece, vuole assumere 80.000 nuovi insegnanti, vuole investire un sacco di soldi, vuole ammodernare, e far ripartire la scuola in condizioni imparagonabili, con una pandemia in corso, rispetto ai tempi della signora di prima.
Uno dei motivi più ridicoli e superficiali degli attacchi? Le rotelle ai banchi.

Le televisioni non si sono mai occupate della controriforma attuata dalla signora Gelmini e votata da Salvini e Meloni. Mai.

Però hanno dedicato centinaia di ore di discussioni alle rotelle.

Io sarei favorevole al trasferimento delle rotelle in questione nei cervelli di molti nostri connazionali che, probabilmente, di quelle rotelle hanno un assoluto ed improcrastinabile bisogno.

Evviva la logica.

Tuttavia la scuola è iniziata, in quasi tutte le Regioni, le inefficienze ci sono, non si nascondono, ma apprezziamo gli sforzi fatti e ci auguriamo che in breve si appianino tutti i problemi.

Non condividiamo nulla del movimento cui la presente ministra della scuola, appartiene, ma comprendiamo anche che non sono momenti facili.

Le critiche insensate ora, le lasciamo a coloro che, prima, hanno distrutto coscientemente la scuola e si permettono, ora, di fare gli esperti e i critici della situazione.

A quelli che, a parole, hanno la soluzione miracolosa in tasca, ma fanno solo chiasso.

AL MINISTRO DELL’ISTRUZIONE


AL MINISTRO DELL’ISTRUZIONE

Caro Ministro Lorenzo Fioramonti, Le scrivo, perché Lei ha sostenuto che non bisogna studiare (e quindi insegnare) la storia nelle scuole perché insegna l’odio.

Invece Le dico che è necessario studiarla perché ci insegna che l’odio non deve mai dominare le coscienze degli uomini.

Le dico che la storia, invece, accende il ricordo, la memoria, e ridà onore a chi ha perso la vita per darci la libertà di cui Lei stessa, oggi gode.

Legga e tragga insegnamento. Sono gli stessi alunni che le insegnano, ministro.

https://www.roma8settembre1943.it/i-personaggi/le-m-o-v-m/ten-raffaele-persichetti/

SENZA POPULISMI TUTTO SAREBBE PIÙ SEMPLICE E VERITIERO


SENZA POPULISMI TUTTO SAREBBE PIÙ SEMPLICE E VERITIERO

Senza populismi la storia non esisterebbe.

Senza populismi, tutto sarebbe così semplice e veritiero che anche il popolo come popolo non esisterebbe. Ognuno avrebbe la sua testa, e le singole teste governerebbero se stesse e quella storia che è la storia del singolo con la propria testa.

I populisti non hanno testa, non hanno pensiero, non amano il singolo, ma la massa soprattutto di non pensanti.

Il popolo o la massa di non pensanti fanno quella specie di democrazia, che è solo apparenza del nulla, governata da populisti ballisti del nulla.

Non serve odiare i populismi; da odiare sono i populisti del nulla.

Ma il nulla dei populisti del nulla produce ciò che, in gergo comune, si dice “un mondo di menzogne”.

Si possono chiamare anche con un altro termine, ma le menzogne sono la carta d’identità dei populisti del nulla.

Nome, cognome nato a, il giorno… ovvero di nome menzogna, di cognome menzogna, nato nella menzogna, il giorno dell’inganno.

Ma non sono veri personaggi famosi che sfidano la storia del passato, con qualche ricordo che durerà nei secoli.

Questi populisti del nulla sono semplicemente rottami che luccicano al chiarore del nulla.

Rottami di un attimo presente, che la storia del singolo con la forza del suo pensiero farà sparire nel nulla: nella cloaca del tempo di lordume, la cui puzza è il solo elemento reale dell’esistenza dei populisti del nulla.

Questi populisti non li odio, ma li butterei direttamente in pasto alle pantegane.

 

IL TRADIMENTO TEDESCO


IL TRADIMENTO TEDESCO

Si parla tanto di “tradimento italiano” nei confronti dei tedeschi, quando fu firmato l’armistizio l’8 settembre del 1943, ma nessuno parla mai del tradimento tedesco verso di noi.

Ebbene ci furono più di un tradimento dei tedeschi verso l’alleato italiano, uno dei tanti fu quello della mancata concessione da parte tedesca del radar. Un tradimento di cui non si vuole parlare.

Solamente nel 1942, i tedeschi consentirono alle navi italiani di dotarsi del radar, una tecnologia che noi non possedevamo, ma che i tedeschi conoscevano e dotavano le loro navi, già molto prima del 1939.

Non ci aiutarono negandoci una tecnologia che poteva salvare molte vite. Considerata l’alleanza fortissima, il patto d’acciaio e poi il ro-ber-to, che ci legavano strettamente alla Germania, fu un gesto di superiorità (seppure tecnologica) che si può chiamare tradimento verso un alleato,  che, almeno in quel momento, era anche leale. Ma ci hanno sempre sottovalutato e mal sopportato. In sostanza ci abbandonarono al nostro destino e permisero che decine di navi italiane fossero bombardate e affondate.

O si è alleati o no, ma noi fummo più che alleati, addirittura, su imposizione tedesca, furono firmate e messe in opera le leggi razziali! Cose che non centravano niente con la guerra, ma potevano rappresentare qualcosa sul piano dell’alleanza. Da parte tedesca la collaborazione fu assai minore.

Questo io lo chiamo “tradimento verso un alleato” o se si vuole, “totale mancanza di fedeltà e collaborazione”.

E poi a noi dicono che siamo traditori?

Un altro, e forse il più clamoroso, fu l’invasione della Polonia, da parte tedesca, senza avvisare l’alleato italiano.

Il 1° settembre 1939, quando svegliarono Mussolini a villa Torlonia, e gli dettero la notizia che le truppe tedesche avevano invaso la Polonia, lui non aveva ancora capito che non si trattava né di Danzica, né di altre rettifiche al confine con la Germania, come il corridoio tedesco verso il mare, ma di una vera e propria invasione

Questa la comprese dopo, e chiese anche spiegazioni.

L’ingannato si rivolse all’ingannatore, pregandolo (!) di attestargli che agisce onorevolmente! E intanto poteva vedere Hitler che osservava compiaciuto, attraverso un cannocchiale da campo, lo spettacolo del bombardamento.

E il popolo tedesco esultò, le campane di tutto il Reich suonarono a festa per la vittoria e purtroppo, le potenze occidentali si comportarono come se avessero deciso per il non intervento.

Insomma dormivano!

Anche se lo stesso documentario, con un montaggio particolare, si concludeva con un aeroplano che si gettava in picchiata contro i contorni delle isole britanniche e, sotto l’impatto del bombardamento, l’Inghilterra saltava in aria, smembrata. E l’entusiasmo di Hitler, a questo punto, non conobbe più limiti: “Questa sarà la loro fine” disse “così li distruggeremo!”

Il presagio per una guerra disastrosa, c’era tutto.

(Notizie tratte dal libro di Erich Kuby – Il tradimento tedesco – Come il terzo reich portò l’Italia alla rovina).

“PRIMA IL NORD” NON C’È FRASE PIÙ RIDICOLA


“PRIMA IL NORD” NON C’È FRASE PIÙ RIDICOLA

Io non sapevo che i piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto. Ma tante volte, per anni.
E cancellarono per sempre molti paesi, in operazioni “anti – terrorismo”, come i marines in Iraq.

Non sapevo che, nelle rappresaglie, si concessero liberà di stupro sulle donne meridionali, come nei Balcani, durante il conflitto etnico; o come i marocchini delle truppe francesi, in Ciociaria, nell’invasione, da Sud, per redimere l’Italia dal fascismo (ogni volta che viene liberato, il Mezzogiorno ci rimette qualcosa).

Ignoravo che, in nome dell’Unità nazionale, i fratelli d’Italia ebbero pure diritto di saccheggio delle città meridionali, come i Lanzichenecchi a Roma.
E che praticarono la tortura, come i marines ad Abu Ghraib, i francesi in Algeria, Pinochet in Cile.

Non sapevo che in Parlamento, a Torino, un deputato ex garibaldino paragonò la ferocia e le stragi piemontesi al Sud a quelle di “Tamerlano, Gengis Khan e Attila”.
Un altro preferì tacere “rivelazioni di cui l’Europa potrebbe inorridire”.
E Garibaldi parlò di “cose da cloaca”.

Né che si incarcerarono i meridionali senza accusa, senza processo e senza condanna, com’è accaduto con gli islamici a Guantanamo. Lì qualche centinaio, terroristi per definizione perché musulmani, da noi centinaia di migliaia, briganti per definizione, perché meridionali.

E, se bambini, briganti precoci; se donne brigantesse o mogli, figlie, di briganti; o consanguinei di briganti (sino al terzo grado di parentela); o persino solo paesani o sospetti tali.
Tutto a norma di legge, si capisce, come in Sudafrica, con l’apartheid.

Io credevo che i briganti fossero proprio briganti, non anche ex soldati borbonici e patrioti alla guerriglia per difendere il proprio paese invaso.

Non sapevo che il paesaggio del Sud divenne come quello del Kosovo, con fucilazioni di massa, fosse comuni, paesi che bruciavano sulle colline e colonne di decine di migliaia di profughi in marcia.

Non volevo credere che i primi campi di concentramento e sterminio in Europa li istituirono gli italiani del Nord, per tormentare e farvi morire gli italiani del Sud, a migliaia, forse decine di migliaia (non si sa, perché li squagliavano nella calce), come nell’Unione Sovietica di Stalin.

Ignoravo che il ministero degli Esteri dell’Italia unita cercò per anni “una landa desolata”, fra Patagonia, Borneo e altri sperduti lidi, per deportarvi i meridionali e annientarli da occhi indiscreti.

Né sapevo che i fratelli d’Italia arrivati dal Nord svuotarono le ricche banche meridionali, le regge, musei, case private (rubando perfino le posate), per pagare i debiti del Piemonte e costituire immensi patrimoni privati.

Non sapevo che, a Italia così unificata, imposero una tassa aggiuntiva ai meridionali, per pagare le spese della guerra di conquista del Sud, fatta senza nemmeno dichiararla.

Ignoravo che l’occupazione del Regno delle Due Sicilie fosse stata decisa, progettata, protetta da Inghilterra e Francia e parzialmente finanziata dalla massoneria (detto da Garibaldi, sino al gran maestro Armando Corona, nel 1988).

Né sapevo che il Regno delle Due Sicilie fosse, fino al momento dell’aggressione, uno dei paesi più industrializzati (terzo, dopo Inghilterra e Francia, prima di essere invaso).

E non c’era la “burocrazia borbonica”, intesa quale caotica e inefficiente: lo specialista inviato da Cavour nelle Due Sicilie, per rimettervi ordine, riferì di un “mirabile organismo finanziario” e propose di copiarlo, in una relazione che è “una lode sincera e continua”. Mentre “il modello che presiede alla nostra amministrazione”, dal 1861, “è quello franco-napoleonico, la cui versione sabauda è stata modulata dall’unità in avanti in adesione a una miriade di pressioni localistiche e corporative” (Marco Meriggi – Breve storia dell’Italia settentrionale).

Ignoravo che lo stato unitario tassò ferocemente i milioni di disperati meridionali che emigravano in America, per assistere economicamente gli armatori delle navi che li trasportavano e i settentrionali che andavano “a far la stagione”, per qualche mese in Svizzera.

Non potevo immaginare che l’Italia unita facesse pagare più tasse a chi stentava e moriva di malaria nelle caverne dei Sassi di Matera, rispetto ai proprietari delle ville sul lago di Como.

Avevo già esperienza delle ferrovie peggiori al Sud che al Nord, ma non che, alle soglie del 2000, con il resto dell’Italia percorso da treni ad alta velocità, il Mezzogiorno avesse quasi mille chilometri di ferrovia in meno che prima della Seconda guerra mondiale (7.958 contro 8.871), quasi sempre a binario unico e con gran parte della rete non elettrificata.

Come potevo immaginare che stessimo così male, nell’inferno dei Borbone, che per obbligarci a entrare nel paradiso portatoci dai piemontesi ci vollero orribili rappresaglie, stragi, una dozzina di anni di combattimenti, leggi speciali, stati d’assedio, lager?
E che, quando riuscirono a farci smettere di preferire la morte al loro paradiso, scegliemmo piuttosto di emigrare a milioni (e non era mai successo)?

Io avevo sempre creduto ai libri di storia, alla leggenda di Garibaldi.

Non sapevo nemmeno di essere meridionale, nel senso che non avevo mai attribuito alcun valore, positivo o negativo, al fatto di essere nato più a Sud o più a Nord di un altro.

Mi ritenevo solo fortunato ad essere nato italiano. E fra gli italiani più fortunati, perché vivevo sul mare.

(Tratto da Terroni di Pino Aprile)

 

Comunque sia, mi è tornata voglia di studiare storia e di cercare se, nei libri scolastici che avevo, questa storia così amara, è riportata.

C’è un sito: http://www.veja.it/2009/02/18/il-massacro-di-napoli-e-del-regno-delle-due-sicilie-appunti-su-un-genocidio/, che tanto lungo, è vero, ma che, numeri alla mano, dimostra come le cose al Sud e i loro abitanti, ai tempi dell’invasione dei piemontesi, stessero molto meglio, del cosiddetto ricco Nord, che oggi tanto si vanta.  Capisco che la lunghezza possa essere fastidiosa, ma per capire è sufficiente soffermarsi sul titolo dei capitoli e leggerne qualche riga. Si impara tanto, e tante cose che oggi ignoriamo del tutto e che nessun libro scolatico di storia del Risorgimento, ha mai riportato.

Adesso si grida “Prima il Nord”, non c’è frase più ridicola, alla luce di ciò che il Nord ha fatto patire al Sud. Ci vorrebbe un nuovo Risorgimento, ma dal Sud verso il Nord, per cambiare radicalmente il paese e per rivalutare il Sud, senza mortificarlo tutti i santi giorni.

10 agosto 1944 – PIAZZALE LORETO


10 agosto 1944 – PIAZZALE LORETO

Per non dimenticare MAI cos’è stato il fascismo in Italia. Volerlo risuscitare è un delitto!

Milano, 10 agosto 1944, Piazzale Loreto. I corpi esposti dei 15 detenuti antifascisti fucilati. Fonte: archivio del museo storico di Bergamo.

(http://it.wikipedia.org/wiki/File:Piazzale_Loreto_10_ago_1944.jpg)

MILANO FEDELISSIMA RISPONDE


MILANO FEDELISSIMA RISPONDE

Inviata a cena da una mia carissima amica, abbiamo scoperto nelle cantine della sua casa, alcuni ricordi che la sua famiglia aveva conservato.

In una cassettina con sopra scritto “vecchie monete”, erano contenute diverse monete, divise per valore, coniate durante il ventennio fascista.

Accartocciate per contenere  le monete, c’erano due pagine di colore rosa del “Corriere della sera” di quell’epoca, precisamente del 23 marzo 1939 – Anno XVII. Purtroppo le condizioni di conservazione della carta  ed il tempo hanno quasi distrutto la minuta scrittura del giornale, ma alcuni articoli sono ancora abbastanza leggibili.

Uno in particolare ha attirato l’attenzione, per la (quasi) attualità:

23 marzo 1919 – 1939

Agli Ordini del Duce

Milano fedelissima risponde

“Quando, in sede opportuna e sulla base di ampia documentazione, si potrà autorevolmente e ponderatamente fare il bilancio del ventennio tra il 23 marzo 1919 ed il 23 marzo 1939, nei riflessi della vita milanese, sarà bene che alle opere materiali si premettano le conquista morali del periodo. Un ventennio come questo fascista ha per la densità degli eventi e per la somma loro importanza, il valore di un intero secolo, tanti sono i capovolgimenti di mentalità, di costume, di passione germinati.

Milano ha seguito la strada segnata da Mussolini, l’uomo del destino, felice di essere chiamata a dare la parola d’ordine che doveva restituire all’Italia, erede dell’Impero di Roma, il prestigio, la gloria e la potenza di un passato non dimenticato. Vent’anni fa nella nuda sala di piazza San Sepolcro era adunata la parte migliore di questa città, che come al tempo dell’intervento, doveva essere ancora una volta condottiera. Nei mesi e negli anni che seguirono il manipolo antesignano divenne folla, la folla divenne popolo.

Il solo premio a cui la città del Fascio primogenito ha mirato è un premio da tempo acquisito: il riconoscimento e l’elogio del Duce. Mussolini ha dichiarato in più riprese e con ogni solennità, che «questa sempre giovane Milano» è la sua fedelissima.

I fascisti alla vigilia non chiedevano altro. Domenica essi converranno da Milano alla Capitale; saranno i Sansepolcristi, saranno gli squadristi, saranno gli uomini della prima aspra battaglia. Piccoli, sdruciti, consunti lembi di stoffa, le «fiamme» che già sventolarono non mai piegate durante le imprese della riscossa patria, sovrasteranno le schiere dei fedeli di ogni tempo. Mussolini riconoscerà i visi, riconoscerà i vessilli.

E l’ambizione massima della vecchia guardia avrà avuto così soddisfazione. Certi tutti, quelli della vigilia che l’avvenire riserbi loro un altro premio: il privilegio di stare ancora all’avanguardia nelle battaglie di domani. In linea come ieri e come sempre, agli ordini del Duce”.

(L’articolo non è firmato)

L’ampollosità, le parole e comunque il vuoto dell’articolo fanno meditare: pare che i milanesi si accontentassero dell’elogio del Duce. Eppure sono anni vissuti, come noi viviamo il nostro ventennio, altrettanto buio e altrettanto vuoto. Col voto di oggi, a Milano, speriamo che anche questo ventennio, si chiuda. Ovviamente in modo pacifico e con spirito di libertà.

IO NON TACCIO


IO NON TACCIO

Sul bene comune

 Voi non siete un’umanità, ma una somma di uomini.

Pensate a voi, badate a voi,

v’accorgete che esistono «altri» solo qualche volta, per caso,

quando c’è da invidiarli o da disprezzarli.

Altrimenti chi se ne frega  degli altri: tutto e solo «io».

I miei fatti, i miei affetti. I miei soldi.

Siete gente arida. Senza calore.

E se vi infiammate per una questione all’apparenza «di principio»

Non lo fate perché ci credete, no,

ma solo per difendere quello stramaledetto orto  che è il vostro

interesse.

(…)

Il bene comune?Ma che ve ne parlo a fare?

Non è una lingua vostra, questa.

Per farmi capire dovrei parlare forse di guadagni, di interessi.

Dovrei parlare di tornaconto . dell’acqua del vostro mulino.

Allora saltereste tutti sull’attenti, direste «fammi sentire!».

Come si dice? Musica per le vostre orecchie.

Invece, guarda caso, mi intestardisco, non mi stanco:

parlo di bene comune,  

parlo di cercare qualcosa che valga per tutti, nessuno escluso,

parlo di fare cose utili,  di non dividere ma unire, anche se ci perderai

qualcosa.

Vi interessa? Ho capito sto abbaiando.

Ma sono fiero, non mi vergogno, d’essere un cane.

(Girolamo Savonarola)

Il Tiranno

Orsù state a udire, voi uomini,

per riconoscere i tiranni e guardarvi da loro.

E state a udire per voi, donne, per ricordarlo a’ vostri mariti.

E voi, fanciulli, per imparare che cos’è un tiranno e fuggirlo dalla

vostra città.

Sappiate dunque, prima,

ch ‘l tiranno è superbo per natura

e appetisce di essere il solo e il primo in tutto.

Il primo, il primo, il primo…

Ha da essere primo  sempre e in ogni cosa.

Se corrono i cavalli al palio,

farà sempre qualche inganno per far che i suoi siano i primi.

Se egli ha scienza o lettere,

vuol sempre che la sua opinione stia al di sopra.

Se sa far versi,

vuol che vadano innanzi a tutti gli altri e che siano cantati.

Non ha amore se non a sé proprio.

E poiché il tiranno per sua natura appetisce d’ essere il primo,

ogni volta che vede uno che possa impedire lo stato suo,

cerca sempre di spegnerlo, perché non gli dia noia.

Così trovagli qualche cagione

– minima: ch’egli avrà sputato in chiesa –

per levarselo innanzi.

Ah, Firenze! Guardati dai tiranni .

Vuol essere corteggiato il tiranno.

Vuol che tu ti aprresenti ogni dì,

e se tu non lo fai, sei notato.

Tutti gli uomini di cervello li tiene bassi,

ed esalta gli schiocchi dicendo

«Costoro  mi saranno fedeli

perché io li mantenga dove non son degni di stare».

Ed esalta i ribaldi, gli assassini:

«Costoro senza di me sarieno impiccati,

e io peggio di loro: perciò loro manterranno me ed io loro»

 (Giacomo Savonarola)

Gli scritti del frate domenicano Girolamo Savonarola, passato alla storia per le feroci  invettive contro la corruzione e il degrado morale in cui verteva la chiesa romana e la società della fine del Quattrocento – e per questo scomunicato da Alessandro VI (Papa Borgia) e condannato al rogo in pubblica piazza per eresia – sono al centro di uno spettacolo prodotto dalla Promo Music di Bologna e scritto da Stefano Massini: Io non taccio. 

Andrà in scena a Bologna, Teatro delle Celebrazioni, il 5 aprile  prossimo.

La parole del Savonarola prenderanno corpo e voce grazie all’interpretazione di don Andrea Gallo, il «prete anarchico», da sempre in prima linea  in difesa degli ultimi e degli emarginati.

Gli scritti, seppur risalenti a cinque secoli fa, appaiono sorprendentemente attuali. Ci parlano, infatti, di senso comune, della guerra, della tirannia, dell’apparire, della Chiesa e della nostra Italia.

Le musiche originali, composte da Valentino Corvino, grazie ad un lavoro di ricerca sulle sonorità della musica sacra della fine del Quattrocento,  attualizzate attraverso elaborazioni elettroniche, saranno eseguite in scena da C-Project.

L’INUTILE MORTE DI MIO NONNO


ADDIO RESISTENZA

L’INUTILE MORTE DI MIO NONNO PARTIGIANO

Semplicemente non c’è. Nei nuovi programmi di storia che si studieranno dal prossimo anno nei licei non si parla di Resistenza.

Così come antifascismo e Liberazione non sono neanche citati. Il buco è al quinto anno, dedicato allo studio dell’epoca contemporanea, dall’analisi delle premesse della I guerra mondiale fino ai nostri giorni. La nuova articolazione, spiegano dal dicastero di viale Trastevere, è stata dettata dalla necessità di evitare che succedesse, come spesso è successo, che non si arrivasse neanche a fare la II guerra mondiale. Troppo poco, ecco perché la commissione per la storia, presieduta da Sergio Belardinelli, ha deciso di assegnare un intero anno di studi al Novecento. Nella formulazione dei temi fondamentali, le indicazioni nazionali precisano che «non potranno essere tralasciati i seguenti nuclei tematici»: l’inizio della società di massa…«il nazismo, la shoah e gli altri genocidi del XX secolo, la seconda guerra mondiale, la guerra fredda (il confronto ideologico tra democrazia e comunismo), l’aspirazione alla costruzione di un sistema mondiale pacifico (l’Onu), la formazione e le tappe dell’Italia repubblicana».


Si passa poi alla formazione dell’Unione europea e agli Usa, «potenza egemone, tra keynesismo e neoliberismo», senza tralasciare «il rapporto tra intellettuali e potere politico», da affrontare in modo interdisciplinare. A differenza dei vecchi programmi, parole come antifascismo, Resistenza, Liberazione sono sparite. «Nessuna operazione di rimozione», dice a ItaliaOggi Max Bruschi, consigliere del ministro dell’istruzione, Mariastella Gelmini, e presidente della cabina di regia sulle indicazioni nazionali dei licei. «I programmi hanno individuato alcuni nuclei fondamentali lasciando grande libertà alle scuole, ai docenti. Quando parliamo di seconda guerra mondiale e della costruzione dell’Italia repubblicana per noi è evidente che è inclusa la Resistenza». Eppure sulla Shoah, per esempio, si precisa che lo studio deve ricomprendere anche gli altri genocidi, una precisazione che manifesta una sensibilità storica e politica sui cui non si è disposti ad affidarsi all’autonomia e alla bravura dei docenti. «La Shoah è un unicum, poi ci sono altri genocidi su cui non si può far finta di niente. Ciò non toglie, sull’altro fronte, che la Resistenza è un valore imprescindibile, mai pensato di declassarla». Il punto è che un elenco di fatti significativi di un periodo può facilmente essere accusato di parzialità se non li cita tutti. «Il nostro non è un elenco esaustivo e prescrittivo, abbiamo solo indicato macrotemi», dice Bruschi. Che nega che possa esserci il rischio che la Liberazione finisca per essere liquidata in due righe e la lotta partigiana magari in una nota. «Che esagerazione, non c’è nessun rischio di questo tipo. Ma se il fatto che nei programmi non c’è la parola Resistenza è un problema, allora… possiamo sempre reinserirla», ribatte.


I programmi infatti non sono ancora definitivi. Genitori, insegnanti e associazioni possono dire la loro alla Gelmini sul forum dell’Indire. C’è tempo fino al 22 di aprile.

La notizia è tratta da:
http://it.finance.yahoo.com/notizie/la-gelmini-cancella-la-resistenza-italoggi-c794957136ed.html?x=0