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LA GRANDE ILLUSIONE


LA GRANDE ILLUSIONE

Si prospetta la triste fine di Pisapia?

Quando timidamente la proposta di Giuliano Pisapia apparve, nel rissoso panorama della sinistra a sinistra del Partito Democratico, con il chiodo fisso di questa parte politica, di “ricostruire” il centrosinistra, si capiva già che era destinata a fallire.

Il problema erano gli obiettivi opposti, che come i poli della calamita di attraggono o si respingono, a seconda di come li confronti.

L’idea del ex-sindaco era chiara e nobile: rifacciamo il centrosinistra perché serve al Paese.

Da allora lo abbiamo visto impegnato, senza risparmiare energie, nella vana ricerca di un risultato impossibile.

Pisapia si comporta tuttora, come nel lontano 1937 il grande regista Jean Renoir, si agitò per tre anni alla ricerca di finanziatori del suo grande capolavoro: quel film “La Grande Illusione”, che, una volta “girato”, concorse all’Oscar e lasciò una segno di grande arte nella storia del cinema.

Il regista fu più fortunato del politico Pisapia, perché non aveva contro quei quattro diseredati ai quali poco importa rifare il film del centrosinistra.

Essi hanno ben altro obiettivo, che perseguono con tenacia: contrastare Matteo Renzi.

Che poi, in fin dei conti, non è un terrificante nazista degli anni trenta, ma un giovane leader politico, ricco di idee e di energie, che ha già dimostrato con i numeri di poter giovare al Paese molto più di quei tre gatti rognosi che si affannano a combatterlo.

E solo per queste ragioni essi, su quell’altare, sacrificheranno anche Pisapia. Infatti, seppure giungessero a un iniziale accordo, l’ex-sindaco non resisterebbe per molto, di fronte alle iniziative dei “fuoriusciti”, dettate solo dal rancore.

Perché tanto odio solo contro Renzi, dei rappresentanti di questa sinistra miseramente minoritaria?

Non certo per un antagonismo su ideali e su programmi politici, ma per l’impossibilità di recuperare per costoro la certezza di una mezza dozzina di poltrone nel prossimo Parlamento. La paura è tanta. L’allontanamento della poltrona, fa superare qualsiasi certezza acquisita. Tuttavia D’Alema, Bersani e il garzone Speranza non rischiano la fame. Sono superprotetti dai meccanismi che deputati e senatori hanno costruito nei decenni, garantendosi stipendi e pensioni da favola, anche dopo aver lasciato le poltrone..

La componente che porterà il tentativo di Pisapia al fallimento è contenuta anzitutto in quella carica di “odio” personale, che non gli permetterà di portare a casa un risultato positivo. E il frutto di quell’odio rischia di offrire prima ai siciliani e poi a tutti gli italiani una probabile nefasta vittoria di Berlusconi, o addirittura di elevare sugli altari gli apprendisti stregoni di Grillo.

Purtroppo il progetto di Giuliano Pisapia è destinato a restare “Una Grande Illusione”. E non vincerà l’Oscar della sana politica.

Per colpa di tre gatti rognosi.

IL PESO DI UN UCCELLINO: PISAPIA


passerotto.630x360IL PESO DI UN UCCELLINO: PISAPIA

Sembra che l’ex sindaco di Milano, Pisapia, ex Sel, voglia ritirare fuori dal cilindro del vecchio Ulivo, il Prodi dei miracoli, quello che ha sconfitto due volte Berlusconi e che, a sua volta, è stato sconfitto per due volte.

Ma non mi pare una mossa elegante e non so cosa ne pensi Prodi.

Pisapia, il cui peso nella politica italiana è pari a quello di un uccellino, lo vorrebbe come capo di un nuovo centro-sinistra largo, originale, diverso.

Non so che cosa deciderà Prodi.

E’ vero che Prodi sconfisse due volte Berlusconi, la seconda volta proprio di misura, ma vinse. E’ altrettanto vero, per quanto incredibile, ma di consuetudine in questa sinistra, che, in entrambe le occasioni, è stato liquidato dai suoi stessi compagni di avventura. Senza un minimo di riconoscenza.

Più tardi, l’hanno fatto rientrare apposta e di corsa dall’Africa, dove era in missione per conto dell’Onu perché sembrava dovessero farlo presidente della Repubblica. Altra presa in giro: sabotato e gettato via, senza nemmeno dirgli grazie.

Adesso, lo vanno a ritirare fuori.

Incredibile, povera, e senza idee è questa politica di sinistra di oggi. Una vera delusione per me.

IL PD E L’ASTUZIA DELLA RAGIONE


IL PD E L’ASTUZIA DELLA RAGIONE

Proviamo a fare una breve riflessione su quanto è accaduto nel nostro Paese nelle due ultime tornate elettorali – quella amministrativa e i referendum -, concentrandoci sui dati obiettivamente più importanti.

Nel primo caso hanno vinto Pisapia a Milano, Zedda a Cagliari, De Magistris a Napoli: un importante avvocato, un giovane professionista, un magistrato; in altre parole tre personalità che non appartengono alla “classe politica” tradizionale (Pisapia è stato parlamentare, ma non è con questa cifra che è stato percepito dall’elettorato milanese).

In breve, tutti e tre – pur venendo da esperienze personali e professionali assai differenti – sono stati votati perché si sono presentati come portatori di novità rispetto alla configurazione politica esistente; come homines novi.

E presentandosi in questo modo sono riusciti a smuovere anche quella gente di sinistra, o di centrosinistra, che si era chiusa nell’astensione o in un vero e proprio distacco dalla politica.

È, precisamente, quello che a Milano, a Napoli o a Cagliari non ha saputo fare il centrodestra, che ha riproposto – come se nulla fosse cambiato – personalità della tradizionale nomenclatura, travolte da un’ondata di distacco, di astensione, di protesta, di perdita di voti, di cui non aveva saputo prevedere né la presenza né la consistenza, sia per insipienza che per mancanza di antenne.

Senza contatto con la realtà il centrodestra ha continuato a parlare un vecchio linguaggio, a dire parole vuote, puri gusci senza suono: i Rom, la moschea, lo “straniero”…

A differenza del centrosinistra, che però si è potuto giovare di quello strumento ambiguo che sono le primarie, le quali in questo caso hanno svolto una duplice funzione positiva: hanno generato un profondo mutamento di leadership rispetto agli assetti previsti, mettendo lo schieramento riformatore in grado di cogliere le trasformazioni in atto nelle varie realtà locali.

In questa situazione, il Pd di Bersani – segretario per fortuna senza carisma – ha potuto svolgere un compito tanto paradossale quanto importante: consegnando, attraverso le primarie, la guida dello schieramento a uomini provenienti da altri partiti ha dato un contributo essenziale al cambio, stabilizzando anche il quadro politico.

C’è stata una sorta di astuzia della ragione in questo processo: il Partito democratico, rinunciando alla propria leadership, ha consentito allo schieramento di centrosinistra di vincere.

È difficile dire cosa sarebbe accaduto se il Pd non avesse, con intelligenza, accettato questa strategia e si fosse raccolto solo intorno alle proprie bandiere; probabilmente a Milano il risultato sarebbe stato, almeno in parte, diverso. Così come, forse, sarebbe stato diverso il risultato del centrodestra se avesse potuto mettere in pista homines novi, senza ricorrere a personaggi ormai logori come Letizia Moratti o espressione del peggior ceto politico quali Gianni Lettieri.

In tutto questo, certo, ha pesato l’assenza di  una alternativa reale nella destra, resa plasticamente evidente, da un lato, dalla crisi di Fini; dall’altro dalla impossibilità, in questo momento, per Tremonti di presentarsi come leader nazionale.

Anche a Napoli le primarie hanno dato un contributo essenziale al cambio, togliendo di mezzo quelli che erano comunque percepiti quali esponenti di una vecchia nomenclatura.

Da questo punto di vista non ci sono state differenze sostanziali tra Milano e Napoli.   

In tutti e due i casi è esploso ed ha vinto il bisogno di una nuova politica, di un cambio – un bisogno che riguardava, con evidenza, tutte le forze politiche, anche quelle del centrosinistra. Con una differenza: a Milano le primarie hanno svolto questa funzione ex positivo, a Napoli ex negativo; ma il risultato è stato il medesimo.

Proviamo ora a guardare il risultato dei referendum.

È stata forte, impetuosa la partecipazione del “popolo” del centrosinistra. Ma fra i dati disponibili, quelli che colpiscono di più sono due: la partecipazione al voto di una parte del Pdl – nonostante il divieto di Berlusconi – e di una consistente parte di quello che viene definito il “non voto”, arrivato ormai a circa il trenta per cento dell’elettorato italiano.

Se questo è accaduto, significa che il bisogno di un cambio comincia a essere avvertito anche a destra e che anche quella parte degli italiani – di destra o di sinistra – che per disgusto o insoddisfazione si era ritirata sotto la tenda di Achille ha deciso di riprendere la parola e di far sentire la sua voce.

Naturalmente, nel generare questo risultato ha giocato virtuosamente la dinamica propria dei referendum: in questione erano infatti valori che si potrebbero definire pre-politici, pre-partitici, valori generali: l’acqua, l’energia, l’eguaglianza di fronte alla legge… Ma proprio questo indica quello che con questo voto ha chiesto la maggioranza degli italiani: individuare quei valori, e quei legami, che sono il prius del comune vivere civile; situarli in primo piano; sottolinearne la generalità e la centralità, pur muovendo da posizioni politiche diverse e, perfino, contrapposte.

E questo, a sua volta, significa che l’Italia comincia a essere stanca delle risse, degli scontri fra partiti, caste, camarille; vuole trovare un nuovo “punto dell’unione”.

Anche nel portare alla luce questo bisogno il Pd ha svolto una funzione preziosa: inizialmente distante dai referendum ha fatto poi confluire tutte le sue forze sul Sì, consentendo di battere il richiamo della foresta e contribuendo, al tempo stesso, a stabilizzare – come nelle amministrative – in forme più avanzate il quadro politico nazionale.

Ma se questa analisi ha un fondamento, oggi sono enormi le responsabilità delle forze interessate al cambio. L’Italia forse comincia ad uscire, faticosamente, da una lunga fase di quietismo, di indifferenza, di staticità, dal tempo della “democrazia dispotica”; comincia a cercare i modi e gli strumenti per aprire una stagione nuova.

Ma chiede, alla politica – e questo è il punto essenziale – una svolta profonda; chiede uomini nuovi, in grado di rappresentare e di dare esito politico a questo bisogno (e qui non è questione di generazione); chiede comportamenti nuovi; nuove forme di rapporto fra “governanti” e “governati”.

È una responsabilità che riguarda, in primo luogo, tutto il centrosinistra, se vuole candidarsi alla guida del Paese; e in modo speciale il Pd: rinunciando a dinamiche di ceto, è questo partito che deve essere, con generosità e lungimiranza, il motore del cambio.

Ma è una responsabilità che oggi riguarda anche le forze più aperte della destra, quelle che hanno a cuore il destino del Paese. La campana del referendum suona anche per loro.

Tante volte, con molta retorica, si è parlato in questi anni di fine della politica. Ma quella che è finita non è la politica; anzi: ciò che forse sta cominciando a venire nuovamente alla luce – lo dico senza enfasi – è proprio l’esigenza della politica, di una politica democratica.

Forse si sono cominciate a incrinare le “ferree catene” della democrazia dispotica, nascoste da “ghirlande di fiori” (direbbe Rousseau); ma per ricostruire l’Italia, dopo venti anni di berlusconismo, è necessario imparare la lezione delle amministrative promuovendo uomini nuovi e accogliere il messaggio del referendum valorizzando nuovi rapporti tra “governanti” e “governati” e nuovi “legami” sociali, politici e anche culturali, a cominciare dal “legame” fondamentale del lavoro.

È da qui che bisogna partire; non sarà né breve, né facile, né indolore.

(Michele Ciliberto – Ordinario di Filosofia – Scuola Normale di Pisa)