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IL GIUGGIOLO E I GIUGGIOLONI


IL GIUGGIOLO E I GIUGGIOLONI

Il giuggiolo o zizzolo (Zizyphus sativa), originario della Cina, è diffuso nell’Italia meridionale e in Sicilia, essendo una pianta adatta a climi temperati caldi.

Ha dimensioni comprese fra i quattro e gli otto metri di altezza, un fusto contorto e scuro, foglie ovato-oblunghe e coriacee con stipole spinose, e fiori insignificanti, verdastri, che compaiono all’inizio della primavera.

Viene coltivato per i suoi frutti, le giuggiole, drupe grosse come un’oliva, dalla polpa biancastra e zuccherina, che maturano in settembre-ottobre e sono dolci-acidule.

In genere le giuggiole vengono raccolte verso la fine dell’estate e l’autunno, sono frutti che maturano generalmente durante il mese di settembre. Indicativamente, da una pianta in piena produzione si possono raccogliere dai 30 ai 50 kg all’anno di frutti, ovviamente con una buona gestione.

Se ne fanno marmellate e conserve, ma occorre essiccarle al sole perché diventino più tenere e più dolci.

Nel Rinascimento, dalle giuggiole si ricavava una bevanda per combattere la tosse.

Del resto, fino a pochi decenni fa, si fabbricavano le omonime caramelle impastate col loro decotto.

Curavano, inoltre, le infiammazioni dei reni e della vescica. Per questo motivo il loro fiore significa Sollievo.

“Nei cibi”, scriveva Castore Durante, “son solamente dalli sfrenati fanciulli e dalle donne molte giuggiole desiderate”. Erano simili a caramelle economiche da succhiare. Per questo motivo sono diventate in molti modi proverbiali sinonimo di inezie e bagatelle, come per esempio; “È un’opera che richiede un lavoro di anni, altro che giuggiole!”, oppure: “Cinquanta milioni di eredità! Una giuggiola!”.

Allo stesso simbolismo s’ispira “giuggiolone”, termine dimenticato dalle nuove generazioni, ma un tempo usato per definire bonariamente una persona di cervello non molto sviluppato, o un ragazzo cresciuto troppo precocemente, infantile e ingenuo nel comportamento.

Ha invece una connotazione positiva il diminutivo “giuggiolino” per indicare un bambino grassottello e simpatico, ma è anche un aggettivo che indica quel particolare colore, fra il giallo e il rosso, di questo frutto.

Un’altra serie di espressioni, come “Andare in brodo di giuggiole” o “Mandare in brodo di giuggiole”, si ispira ad una ricetta, quasi dimenticata: si lascia per qualche giorno all’aria aperta un chilo di giuggiole mature perché avvizziscano.

Poi, tolto il nocciolo, le si fa cuocere coperte d’acqua con due mele cotogne, pulite e tagliate a fette, con i chicchi di un paio di grappoli di uva nera e con un chilo di zucchero.

Durante la cottura si può aggiungere la scorza di limone.

Dopo un’ora di ebollizione si aggiunge poco a poco un litro di vino rosso che va lasciato evaporare, continuando la cottura a fuoco basso, finché si ottiene una sorta di confettura abbastanza densa, “il brodo di giuggiole”, che si consuma freddo, come una marmellata: una vera leccornia.